Ho letto “Il termine della notte” lo splendido e disturbante romanzo di John D. MacDonald (Mattioli, 1885, traduzione di Nicola Manuppelli e pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1960) durante queste giornate di nubifragi, tempeste, vento, neve, alberi sradicati, la pioggia che batteva contro le finestre e mi è sembrato come di vivere dentro a un incubo non solo di carta ma di carne, terrore, sangue, violenza.
Autore prolifico, reso famoso grazie al romanzo Cape Fear, amatissimo da gente come Stephen King e Kurt Vonnegut, McDonald con “Il termine della notte” compie un vero e proprio miracolo letterario realizzando un affresco noir di straordinaria limpidezza e degrado morale e insieme gettando su un tavolo d'obitorio un'America in trasformazione con le sue luci e le sue ombre, il suo moralismo e il suo manifesto destino verso il nulla. Ispirandosi a una serie di fatti di cronaca dell'epoca, MacDonald racconta la storia di quattro disperati assassini quasi per caso: un beatnik santone alla Charles Manson, un gigante violento e assetato di sangue e sesso, una ragazzina con la frangia, mezza prostituta, mezz'artista, tossica e innamorata del coltello e infine un ragazzo Wasp che ha mollato l'università e si è messo sulla strada. Quattro disperati che assumono droghe e spingono sull'acceleratore delle macchine rubate, in giro per le strade d'America, fino a compiere il primo omicidio e a continuare fino a schiantarsi contro la sedia elettrica.
Messa in questi termini potreste pensare a una storia tutta violenza, azione, adrenalinica (un po' come va di moda oggi e non solo in molti romanzi e serie tv che hanno la pretesa di essere noir/realistiche) e invece no ed è proprio in questo non voler raccontare la storia in maniera lineare, ultraveloce e ultraviolenta splatter che MacDonald realizza il suo capolavoro.
Cosa fa?
Decide di raccontare la storia con lentezza e alternando più voci. Si parte con un prologo/chiusura memorabile che è la lettera di un secondino che racconta divertito dell'esecuzione sulla sedia elettrica dei quattro criminali (per la ragazzina che ancheggia sui tacchi e con addosso un paio di jeans attillati è impossibile non perdere la testa) e poi ecco mescolarsi le memorie carcerarie del ragazzino bianco con tutte le sue riflessioni psicologiche e la narrazione della propria avventura, gli stralci/memorie dell'avvocato (debole, insicuro e fuori luogo) incaricato di difendere i quattro imputati e poi tutta una serie di altri personaggi apparentemente secondari ma decisivi nel creare l'affresco indimenticabile di una storia criminale e insieme, come già scritto precedentemente, quello di un Paese col mito del denaro, del successo, della giovinezza e che sta vivendo un periodo di trasformazione, che sembra aver perduto la propria anima e che non sa riconoscere più cosa sta accadendo ai propri figli e alle tradizioni di un tempo (con a dire il vero un certo sottofondo reazionario che a qualche lettore potrà risultare fastidioso), che alla violenza sa reagire solo con altra violenza, senza avere nemmeno il coraggio di ascoltare, anche perché forse non c'è niente da ascoltare e da capire.
“Il termine della notte” è un romanzo che si prende del tempo, denso, avvolgente, misteriosamente doloroso, che si interroga sulle pulsioni umane e sul valore che una vita può avere, sulla responsabilità individuale, sulle vere o presunte colpe della società e con un epilogo insieme tragico, commovente e anche cinico.
Una volta letto ci si sente turbati decisamente insicuri e questa insicurezza a me è piaciuta tantissimo.