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mercoledì 31 ottobre 2018

"Il termine della notte" di John D. MacDonald (Mattioli 1885)



Ho letto “Il termine della notte” lo splendido e disturbante romanzo di John D. MacDonald (Mattioli, 1885, traduzione di Nicola Manuppelli e pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1960) durante queste giornate di nubifragi, tempeste, vento, neve, alberi sradicati, la pioggia che batteva contro le finestre e mi è sembrato come di vivere dentro a un incubo non solo di carta ma di carne, terrore, sangue, violenza. 

Autore prolifico, reso famoso grazie al romanzo Cape Fear, amatissimo da gente come Stephen King e Kurt Vonnegut, McDonald con “Il termine della notte” compie un vero e proprio miracolo letterario realizzando un affresco noir di straordinaria limpidezza e degrado morale e insieme gettando su un tavolo d'obitorio un'America in trasformazione con le sue luci e le sue ombre, il suo moralismo e il suo manifesto destino verso il nulla. Ispirandosi a una serie di fatti di cronaca dell'epoca, MacDonald racconta la storia di quattro disperati assassini quasi per caso: un beatnik santone alla Charles Manson, un gigante violento e assetato di sangue e sesso, una ragazzina con la frangia, mezza prostituta, mezz'artista, tossica e innamorata del coltello e infine un ragazzo Wasp che ha mollato l'università e si è messo sulla strada. Quattro disperati che assumono droghe e spingono sull'acceleratore delle macchine rubate, in giro per le strade d'America, fino a compiere il primo omicidio e a continuare fino a schiantarsi contro la sedia elettrica. 
Messa in questi termini potreste pensare a una storia tutta violenza, azione, adrenalinica (un po' come va di moda oggi e non solo in molti romanzi e serie tv che hanno la pretesa di essere noir/realistiche) e invece no ed è proprio in questo non voler raccontare la storia in maniera lineare, ultraveloce e ultraviolenta splatter che MacDonald realizza il suo capolavoro.
Cosa fa?
Decide di raccontare la storia con lentezza e alternando più voci. Si parte con un prologo/chiusura memorabile che è la lettera di un secondino che racconta divertito dell'esecuzione sulla sedia elettrica dei quattro criminali (per la ragazzina che ancheggia sui tacchi e con addosso un paio di jeans attillati è impossibile non perdere la testa) e poi ecco mescolarsi  le memorie carcerarie del ragazzino bianco con tutte le sue riflessioni psicologiche e la narrazione della propria avventura, gli stralci/memorie dell'avvocato (debole, insicuro e fuori luogo) incaricato di difendere i quattro imputati e poi tutta una serie di altri personaggi apparentemente secondari ma decisivi nel creare l'affresco indimenticabile di una storia criminale e insieme, come già scritto precedentemente, quello di un Paese col mito del denaro, del successo, della giovinezza e che sta vivendo un periodo di trasformazione, che sembra aver perduto la propria anima e che non sa riconoscere più cosa sta accadendo ai propri figli e alle tradizioni di un tempo (con a dire il vero un certo sottofondo reazionario che a qualche lettore potrà risultare fastidioso), che alla violenza sa reagire solo con altra violenza, senza avere nemmeno il coraggio di ascoltare, anche perché forse non c'è niente da ascoltare e da capire.

“Il termine della notte” è un romanzo che si prende del tempo, denso, avvolgente, misteriosamente doloroso, che si interroga sulle pulsioni umane e sul valore che una vita può avere, sulla responsabilità individuale, sulle vere o presunte colpe della società e con un epilogo insieme tragico, commovente e anche cinico. 
Una volta letto ci si sente turbati decisamente insicuri e questa insicurezza a me è piaciuta tantissimo.


lunedì 29 ottobre 2018

Il mio amore per gli Stati Uniti e qualche libro


-qui-

Il mio amore per gli Stati Uniti, la cultura anglosassone, l'Inghilterra, l'America in generale (dall'Alaska alla Patagonia) è un amore che dura da una vita, sin da bambino. E sin da bambino mi porto dietro la nomea di esterofilo, di uno che preferisce la cultura degli altri paesi rispetto a quella italiana (anche di coglione, depresso, snob, testa di cazzo, frocio di merda). Chissà forse ho la mente colonizzata dagli odiati yankee, forse perché mio nonno prima della guerra poteva partire per New York e mi ha trasmesso l'amore per Moby Dick e gli scrittori statunitensi come Steinbeck, forse perché mio zio adorava il noir e se la vita fosse stata buona con lui sarebbe partito per l'Argentina negli anni '50, forse perché sono cresciuto con dosi massicce di film western e i miei genitori hanno sempre preferito John Ford, Billy Wilder o Hitchcock o Michael Cimino a Pasolini e Antonioni, forse perché il libro preferito di mio padre è I quarantanove racconti e le sue cassette dicono Rolling Stones, Jimi Hendrix, Procol Harum, Billie Holiday, forse perché gli amici che mi son fatto ai tempi del liceo mi hanno aperto le finestre di un mondo musicale e letteratura che era quasi totalmente in lingua inglese e per tanti tantissimi altri motivi e forse perché l'Italia con i suoi secoli e secoli di storie e rovine e canoni mi ha sempre soffocato e invece gli Stati Uniti e l'Inghilterra mi hanno sempre permesso di respirare, sognare, guardare avanti.

Non lo so, fatto sta che sogno da una vita di toccare con mano il suolo statunitense.
Già quando vidi sbucare dalla nebbia le scogliere di Dover la volta che andai in Inghilterra mi mancò il fiato e mia sorella, al termine di quel mese splendido, dovette trascinarmi a forza sul traghetto per riportarmi a casa senza capacitarsi del mio comportamento. Le dicevo "Io qui sto bene, non voglio tornare a Costa Masnaga". Per dire Milano o Roma o Napoli o Trieste o Genova non mi hanno mai detto piu' di tanto rispetto al mio paese.



Su questo foglio c'è la lista di alcuni libri che vorrei leggere nei prossimi mesi e non c'è un solo testo che non sia di matrice statunitense/inglese. Se avessi maggiore padronanza della lingua opterei direttamente per l'originale.

E sicuramente nei prossimi giorni seguirò credo con maggiore attenzione le elezioni di metà mandato rispetto alla politica italiana e ho pure comprato due zucche per Halloween e sorridere pensando a quel genio di Billy Corgan.

Una politica italiana che seguo sempre meno in tv e di cui vengo a sapere solo dai giornali. La guardo il telegiornale del Ticino e l'edizione serale del telegiornale svizzera nazionale che ha una qualità di servizi e apertura al mondo che i telegiornali italiani se la possono solo sognare.

Che poi i libri scritti sono questi e magari qualcosa potrà pure interessarvi.
Oggi sono tornato al post lungo perché fa un freddo boia e si vede lontano la neve e l'autunno mi fa schifo.


















venerdì 26 ottobre 2018

"La ballata di un piccolo giocatore" di Lawrence Osborne (Adelphi)



Appena ho visto la copertina con quel nome esposta su uno degli scaffali della libreria di Lugano ho immediatamente comprato una copia de “La ballata di un piccolo giocatore” di Lawrence Osborne (Adelphi, traduzione di Mariagrazia Gini) ma poi l'ho messa da parte sulla scrivania. Adoro Osborne, ho letto il resto delle sue opere precedentemente pubblicate ma non sono giorni particolarmente felici, mi porto dietro una testa e uno stomaco pieni di dolore, dubbi, pensieri, stanchezza, ferocia, cattiveria, e quando leggo le suo pere io mi sento messo a nudo nelle mie debolezze e dipendenze da sentirmi inerme, mi viene voglia di mollare tutto e andarmene senza salutare nessuno, di salire su un aereo e volare in quell'Oriente che mi affascina da una vita. 

Poi oggi son tornato a casa presto dal lavoro e sentivo la necessità, il bisogno fisico, di leggere qualcosa che fosse totalmente mio, per ripulirmi il corpo e la mente dalle scorie appiccicose di un lavoro che sento sempre più distante, di chiacchiere insensate coi colleghi, delle facce delle cassiere della Coop, della noia dell'attualità e allora dopo un pranzo veloce a base di verze e patate e una doccia mi sono steso sul letto e ho letto questo romanzo senza mai fermarmi perchè sin dalle prime pagine è riesploso tutto il mio amore per Osborne, per il suo stile così classico e insieme così ben piantato nei nostri giorni e le sue atmosfere umide, torbide, dissolute che mi fanno sempre godere.

Ne “La ballata di un piccolo giocatore” risplendono i colori di un Oriente dalle tinte fosche e magiche, in questo caso Macao con le sue case da gioco e la dipendenza di giocatori di ogni estrazione sociale dal brivido della scommessa, le splendide atmosfere torbide e di perdizione, che ti restano incollate addosso e che sono poi il motivo che mi fecero innamorare di Un americano tranquillo di Greene, un protagonista (un truffatore giocatore finto Lord) che si perde e che non capisce se abbia ancora senso ritrovare se stesso e la speranza di una vita diversa e che continua a giocare e a giocare e a vincere e a perdere, fantasmi che ti stanno alle spalle, superstizioni, divinità, religioni, una donna che forse è una prostituta o forse un fantasma, palazzi coloniali che vivono delle ragnatele di un passato spazzato via dalla modernità e tanto tanto alcool e prostitute.

Quando sono arrivato all'ultima pagina fuori il tempo stava cambiando.
Da domani arriveranno la pioggia e il freddo e i cimiteri si riempiranno di fiori e parenti e poi arriverà la prima neve e poi Natale e chissà che cos'ha in serbo per me il futuro.
Di sicuro altre giornate faticose e inutili. 

Tre estratti, ecco il primo:

La sera dopo, alle otto esatte, mi misi il completo più scuro che avevo e presi l'ascensore per scendere dal settimo piano dell'Hotel Lisboa. Era l'ora del “secondo turno” nel casinò più redditizio del mondo e le porte girevoli turbinavano via via che le folle di clienti si tuffavano verso il labirinto di casinò disseminati per tutto l'albergo. Ricavi per sette milioni di dollari al giorno e una coltre di fumo che non se ne andava mai; fluttuava intorno agli alberi di tangerini ai quali erano appese, come frutti velenosi, mille buste rosse del Capodanno. Fumo che grattava in gola come segatura mescolata a polvere di metallo.
Scesi al casinò del grande pubblico, il Mona Lisa, dove i giochi sono infiniti nella loro varietà: pai gow, fanton, cussec, Q poker e stud poker, e ovviamente baccarat punto banco, che è un po' la regina carogna e puttana dei giochi di carte da casinò. I camerieri mi portarono un cognac con sausage rolls, e ordinai dalla strada un fiore da mettermi all'occhiello. Datevi un tono, oh fratelli miei, e fate credere di essere veri lord.  Ma persi ancora. Giocai a dadi pesce-gambero-granchio per un'ora, completamente assorbito, poi scesi all'ascensore al Crystal Palace, che è come calarsi in una grotta. Ai soffitti sono appese onde di schegge di vetro dalle sfumature verdi e arancio. Un luogo dove la mente razionale va in pezzi. Da lì presi in totale solitudine la rotta del Club Triumph e del Lisboa Hou Kat, un luogo enigmatico, un palazzo cretese sepolto dell'epoca della lineare B, con una sala rotonda di divani in pelle e alberi di tangerini con le buste di Capodanno appese. Come fanno a esistere posti così?
Passarono le ore. I soldi scivolarono via. Una goccia di sudore alla base della spina dorsale e le mie dolci vertigini. Dopo una lunga serie di perdite tornai in camera a rinfrescarmi, quindi ripresi l'ascensore che scendeva ai casinò, per un secondo tentativo. Erano le undici: il turno di notte era appena iniziato. Uomini brutali, cinici, faccia rossa e completo da poco; fumavano senza sosta, gli occhi come piccole fessure vogliose che risucchiavano ogni cosa e la risputavano fuori. Al piano terra stavano in piedi vicino al Trono del Faraone – una riproduzione dalla tomba di Tutankhamon – e a un grande dipinto a olio verticale di cui ci veniva fornito il titolo: La mère abandonnée. Una donna con una lira si addolora per il suo bambino che dorme in un carretto. La scena di povertà contadina della Francia ottocentesca non risvegliava nessuna curiosità e tutti aspettavano gli ascensori voltandole le spalle. Avevano borse di fiches e lattine di tè al melone d'inverno. Il loro alito sapeva di salsa d'ostriche. Comprai un sigaro nel centro commerciale sotterraneo e risalii nelle sale VIP, dove dalle pareti incombevano i Renoir. Nelle quattro sale più private le puntate andavano da un minimo di diecimila a un massimo di due milioni. Tre giocate per volta, di solito. C'era un ingresso separato che portava direttamente in albergo, per incoraggiare i forti scommettitori a passare subito dal letto alle sale VIP, ancora mezzo addormentati. Dai dipinti di Alma-Tadema sull'antica Roma erano rotolate giù tante poltrone di un rosso vivo. Fanciulle ridenti saltellavano lungo pendii fioriti. Aria, luce e lussuria. Scene del secondo secolo, o del primo secolo, o del quarto secolo, o del secolo che non c'è. Tantissimi secoli ridotti a un affresco. Tantissimi secoli di piaceri inutile. E lì i direttori di fabbrica che non avevano mai letto un libro su Roma e tantomeno ci erano andati poltrivano e contraevano la mente, gettandosi come falene disorientate nella fiammella della Fortuna. Non sapevano neanche dov'erano. Orienteoccidente.” (pp. 25-27)

il secondo:

Il punto banco è una lotta contro le pure leggi del caso. Quando giochi, sei solo davanti al destino, e non è una cosa che capiti spesso. Quando giochi sei un fascio di nervi. Il tuo battito cardiaco accelera a un ritmo insopportabile. Hai la sensazione di camminare sul bordo di un cratere fatto di roccia rovente, tagliente, sottile come la lama di un rasoio, e capace di rompersi con tutta la spettacolarità del vetro. È un gioco circondato da possibilità minacciose: la morte immediata, che arriva ancora più in fretta che col poker o la roulette. È per questo che mi piace. Non restano illusioni. Si muore sulla ghigliottina.” (pp. 45)

e infine il terzo:

Cominciarono a rivolgersi a me con un tono diverso. Mi sistemai i guanti; mi resi conto di quanto fosse diventata altera la mia postura. Ora somigliavo molto di più all'idea di un lord inglese che fa la bella vita in Oriente. In Oriente, tutti mi dicevano sempre – o almeno me lo dicevano i giocatori -, la gente crede che le coincidente abbiano un significato. Che il soprannaturale governi il naturale. Da qualche parte Jung ne parla; è dovuto, dice, al fatto che i cinesi hanno un diverso senso del tempo, che nella sua prefazione all' I Ching definì sincronicità. I cinesi, disse, non credono nella casualità; credono che quando varie cose accadono nello stesso momento ci sia tra loro un nesso di grande significato. La mentalità cinese sembra preoccuparsi esclusivamente dell'aspetto fortuito degli eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza è il fulcro di questa particolare mentalità, e ciò che invece veneriamo come causalità passa quasi inosservato. Sì, questa sarebbe l'interpretazione accademica. In quel momento, mentre puntavo quel formidabile mucchio di fiches su una singola mano, ero certo che non ci fosse causalità alla base di quel che sarebbe accaduto. In Oriente, come qualcuno ha osservato, non si muore. Al tempo stesso sentii che stavo entrando in un grande fiume di Fortuna, e sentii anche come doveva essere infinito e immortale quel fiume. Quando divenni tutt'uno col suo flusso, la dopamina mi inondò il copro e mi sentii invulnerabile; le carte furono scoperte e vidi il quinto nove.” (pag. 134)


mercoledì 24 ottobre 2018

Da Zadie Smith a William Wordsworth per arrivare alla sciatta politica quotidiana

In “Feel Free” di Zadie Smith (SUR) c'è un pezzo molto bello che si intitola “Questione di accordatura” e in questo pezzo che è una riflessione sullo disvelamento (in questo caso attorno a Joni Mitchell)  e sul “connoisseuse”, e molto molto altro, è splendido trovare lo spunto per tornare ad ascoltare “Blue” ma anche muoversi, col cuore e con la mente, nella cattedrale di Tintern in Galles e riassaporare la bellezza dei versi di Wordsworth, perché di poesia non se ne parla piu' e poi alla fine "Blue" cos'è, se non poesia pura?



Leggere, studiare, approfondire, ascoltare musica, dormire, camminare, meditare nuotare, correre (se le mie ginocchia malandate me lo permettessero), e tutto il resto che non riesco a immaginare e che non fa per me ma verso cui sempre mostrerò rispetto, sono un antidoto a questo mondo da cui mi sento per l'ennesima volta sempre più distante. 

Lontano galassie siderali anche dagli amanti/collusi/leccapiedi di questo governo nerogialloverdepiscia ma anche da moltissimi di coloro che lo criticano e che vorrebbero sostituire questo governo con altre versioni insopportabili da cui mi sentirei ugualmente distante (versioni democraticominnitiane, comuniste, venezuelane/cubane/sovieticoripulite, populiste di sinistra, giustizialiste dure e pure perché carcere e pm sono meglio del Viagra e dei vibratori). 





Eccolo William Wordsworth nei "Versi scritti alcune miglia a nord dell'Abbazia di Tintern, visitando nuovamente le rive del fiume Wye durante un viaggio – 13 luglio 1798" e a costo di apparire come uno snob di merda, io li ripropongo:

Sono passati cinque anni; cinque estati con
cinque lunghi inverni! E nuovamente odo
queste acque, che scorrono dalle loro sorgenti montane
con dolce mormorio nell'entroterra. Nuovamente contemplo
queste rupi alte e scoscese,
che imprimono a una scena solitaria
pensieri di più profonda solitudine; e collegano
il paesaggio alla quiete del cielo.
E' giunto il giorno in cui nuovamente riposo
qui, sotto questo oscuro sicomoro, e osservo
questi quadrati di campi coltivati, questi orti erbosi,
che in questa stagione, con i frutti acerbi,
sono tutti rivestiti di verde, e si perdono
tra i boschi e i frutti. Ancora vedo
queste siepi, quasi non sono siepi, piccole linee
di verde rigoglioso e selvatico: queste fattorie pastorali,
verdi fino alla soglia; e ghirlande di fumo
che si alzano, in silenzio, tra gli alberi!
Con qualche traccia incerta, che potrebbe sembrare
di abitanti vagabondi in questi boschi deserti,
o di una qualche caverna d'Eremita, in cui accanto al fuoco
l'Eremita siede solo.

E queste belle forme,
sebbene l'assenza sia stata lunga, non sono state per me
come un paesaggio per l'occhio di un cieco:
ma spesso, in stanze solitarie, e tra il rumore
di paesi e città, da loro ho ricevuto,
in ore di stanchezza, dolci sensazioni,
sentite nel sangue, e sentite nel cuore;
sono giunte fino alla parte più pura della mia mente,
con un ristoro tranquillo :- tutti sentimenti
di un piacere dimenticato: tale da avere,
forse, un'influenza né piccola né banale
sulla parte migliore della vita di un uomo buono,
sui suoi piccoli, innominati, dimenticati, gesti
di gentilezza e d'amore. Inoltre, credo
di dovere loro un altro dono,
d'aspetto più sublime; quello stato d'animo benedetto,
in cui il peso del mistero,
il carico gravoso e sfiancante
di tutto questo mondo incomprensibile,
si alleggerisce :- quello stato d'animo sereno e benedetto,
in cui gli affetti ci conducono con gentilezza,-
finché, quasi sospeso il fiato di questa struttura corporea
e anche il moto del nostro sangue umano,
giaciamo nel nostro corpo addormentati,
diventando un'anima che vive:
e intanto, con occhio reso quieto dal potere
dell'armonia, e dal profondo potere della gioia,
vediamo dentro la vita delle cose.

Sia questa
pure un'illusione, ma, oh!, quante volte-
nel buio e tra le molte forme
di giorni senza gioia, quando l'inutile fretta
e la febbre del mondo hanno oppresso
il pulsare del mio cuore -
quante volte, in spirito, mi sono rivolto a te,
Wye silvano! Tu che vaghi tra i boschi,
quante volte il mio spirito si è rivolto a te!
E adesso l'immagine della mente rivive,
con barlumi di pensieri quasi estinti,
con percezioni deboli e oscure,
quasi come una triste perplessità:
mentre sto in piedi qui, non solo con il senso
del piacere presente, ma col piacevole pensiero
che in questo momento ci sia vita e cibo
per gli anni a venire. E quindi oso sperare.
Sebbene io sia cambiato, non c'è dubbio, da come ero quando
la prima volta venni tra queste colline; quando saltavo
come un capriolo sulle montagne, sulle rive
di fiumi profondi e ruscelli solitari,
dovunque mi guidasse la natura: più come un uomo
che fuggisse da qualcosa che teme, che uno
che cercasse ciò che ama. Perché allora la natura
(e adesso non ci sono più i semplici piaceri
dei giorni giovanili e i loro allegri movimenti animali)
era per me il tutto in tutto. -Non so dipingermi
com'ero allora. Il rumore della cascata
mi tormentava come una passione: l'alta roccia,
le montagne, il bosco buio e profondo,
i loro colori e le loro forme, erano allora per me
un desiderio; un sentimento e un amore,
che non avevano alcun bisogno di un fascino più remoto,
fornito dal pensiero, né di un interesse
che non derivasse dall'occhio. -Quel tempo è passato,
e tutte le sue gioie dolorose non ci sono più,
né i suoi rapimenti nebulosi. Non mi dispiace,
non me ne lamento, né lo rimpiango. Altri doni
mi sono giunti che sono, così credo, abbondante ricompensa
per ciò che ho perso. Perché ho imparato
a guardare la natura, non come al tempo
della gioventù, ma ascoltando spesso
la lenta, triste musica dell'umanità,
né stridente né aspra, ma con grande potere
di sottomettere alla riflessione. Ho sentito
una presenza che mi turba con la gioia
di pensieri elevati; il senso sublime
di qualcosa infuso molto più profondamente,
che abita la luce del tramonto,
il cerchio dell'oceano, l'aria viva,
il cielo blu e la mente dell'uomo;
un moto e uno spirito che spinge
tutte le cose pensanti, tutti gli oggetti di tutti i pensieri,
e che ruota attraversando tutte le cose. Perciò io sono ancora
un amante dei prati e dei boschi
e delle montagne; e di tutto ciò che vediamo
di questa terra verde; di tutto il potente mondo
dell'occhio e dell'orecchio, -ciò che essi creano per metà
e ciò che percepiscono; mi piace riconoscere,
nella natura e nel linguaggio dei sensi,
la radice dei miei pensieri più puri, l'origine,
la guida, il guardiano del mio cuore e della mia anima,
di tutto il mio essere morale.

Senza dubbio,
se anche non mi fosse stato insegnato, non permetterei
la decadenza dei miei spiriti geniali:
perché tu sei qui sulle rive
di questo bel fiume; tu, la mia Amica più cara,
mia cara, cara Amica; nella tua voce sento
il linguaggio del mio cuore precedente e leggo
i miei piaceri precedenti nella luce dardeggiante
dei tuoi occhi selvaggi. Oh! Ancora per un poco
fammi guardare in te quello che fui,
cara, cara Sorella! Faccio questa preghiera,
sapendo che la Natura non tradisce
un cuore che la ama; ed è suo privilegio,
per tutti gli anni della nostra vita, guidarci
di gioia in gioia. Essa può così conformare
la nostra mente, imprimere così
quiete e bellezza, nutrirci così
di alti pensieri, che le lingue invidiose,
i giudizi ostili, il disprezzo degli egoisti,
i saluti privi di cortesia, tutti
i tristi episodi della vita quotidiana,
non possono prevalere su di noi, né disturbare
la nostra lieta fede nel fatto che tutto ciò che contempliamo
sia pieno di benedizioni. Lascia dunque che la luna
illumini il tuo cammino solitario;
lascia che sulle montagne nebbiose il vento sia libero
di soffiarti contro: e, dopo anni,
quando queste estasi selvagge, maturando, saranno diventate
un sobrio piacere, quando la tua mente
sarà diventata la dimora di tutte le forme più belle,
e la tua memoria la residenza
di tutti i suoni e le armonie più dolci. Oh! Allora,
se dovessero toccarti in sorte solitudine, paura,
dolore o lutto, ricorderai, col risanante pensiero
della gioia più tenera, me
e queste mie esortazioni! E se anche accadesse
che io dovessi essere dove non posso più udire
la tua voce, né ricevere dai tuoi occhi selvaggi questi sguardi
di un'esistenza passata, tu non dimenticherai
che siamo stati insieme sulle rive
di questo torrente delizioso, e che io, che da tanto
tempo adoro la natura, sono venuto qui
per venerarla, senza stanchezza, o anzi,
con amore più caldo – oh! Col grandissimo zelo
di un amore più sacro. E non dimenticherai
che, dopo molti vagabondaggi, molti anni
di assenza, questi boschi profondi e le alte rocce,
questo verde paesaggio pastorale, sono stati per me
molto più cari; sia per se stessi che perché ci sei tu!


Andrea Consonni, Lugano, 24 ottobre 2018

martedì 23 ottobre 2018

"Feel Free" di Zadie Smith (SUR)


Sono molto affezionato a Zadie Smith.
La seguo da sempre e ogni suo libro mi ha offerto spunti di riflessione, dubbi, storie particolari, sguardi su sentimenti/mondi che prima non avrei mai preso in considerazione.
E anche in questa raccolta "Feel Free. Idee, visioni, ricordi" (Sur, traduzione di Martina Testa/Silvia Pareschi) Zadie Smith dimostra ancora una volta tutta la sua arguzia e bravura, la limpidezza sensibile della sua scrittura, sia che si metta a scrivere di librerie o di Justin Bieber, di Brexit o Ballard e il pezzo sulla Brexit (ormai in divenire) contiene tutta una serie di riflessioni e dubbi che sono gli stessi su cui io stesso mi arrovello da tempo.

È una raccolta da coccolare, da leggere e rileggere. 
Su cui meditare per affrontare, con la mente dubbiosa e allenata, i tempi che ci aspettano. 
Sempre con un libro affianco.


Fino al 3 novembre il Partito Radicale in Piazza Cordusio a Milano



Fino al 3 novembre il Partito Radicale si è "trasferito" a Milano in Piazza Cordusio.
Se vi va potete farci un salto, ascoltare, incontrare, litigare, discutere, firmare per le 8 proposte di legge, iscrivervi, interessarvi.

Maggiori informazioni qui e qui.


lunedì 22 ottobre 2018

Deafheaven - "Night People" (feat. Chelsea Wolfe)

Una settimana lavorativa, e non solo, di merda pura si chiude oggi.

Due giorni liberi e poi tutto ricomincia.

Anche se prevedo che questi due giorni saranno interrotti dalle solite rotture di cazzo.

Per fortuna riesco ancora ad ascoltare musica:

Deafheaven - "Night People" (feat. Chelsea Wolfe)

sabato 20 ottobre 2018

"Ornamento" di Juan Cárdenas (SUR)




Quando avevo acquistato “Ornamento” dello scrittore colombiano Juan Cárdenas (Sur, traduzione di Chiara Muzzi), Shanti, la libraia della splendida La Libreria Volante di Lecco (se arrivate sulla sponda migliore del Lago di Como, fateci un salto...qua esce il mio campanilismo...sempre mi fu insopportabile l'orrida città di Como), m'aveva sorriso per averle fornito tutti i riferimenti per trovarmelo fra gli scaffali, visto che quel pomeriggio la mia memoria era decisamente fragile ed ero veramente stanco. 

Quelle di "Ornamento" sono 135 pagine che ho letto in un pomeriggio d'ottobre che sembra giugno mentre sulle scale le casalinghe, matrone, razziste, brave madri di famiglia discutevano sguaiate dei turni di lavatrice, delle lasagne, della pizza fritta e mentre lo leggevo mi sarebbe piaciuto uscire e distribuire a tutte loro qualche pasticca della droga che viene creata nel laboratorio colombiano di questo romanzo e che funziona solo sulle donne. 

A lettura ultimata (lettura che vi consiglio vivamente e la Sur sta pubblicando splendide opere) io volevo scrivere di questo romanzo ma poi mi sono ricordato di una donna che incontrai da bambino e che adesso dovrebbe aver ormai superato i sessant'anni e allora ho preferito scrivere di lei piuttosto che tediarmi (sì, tediarmi) con una noiosa e pedante recensione. 

Lunghi capelli neri ricci, alta, somiglia, per semplificare, a Elisa Isoardi. 
Una libera professionista che aveva rapporti con la mia famiglia sin da bambina. Persi la testa per lei sin dalla prima volta che la vidi. Fui rapito dai suoi tacchi, dalle sue cosce, dallo spacco delle sue gonne, dal modo in cui fumava, dalle sue unghie curate, dalla sua cultura vastissima (già allora mi piacevano i libri e lei leggeva davvero tanto), da come si ricordava perfettamente di mio zio venticinquenne e come lo metteva in ridicolo, da come sapeva tenere testa a mia nonna, dalla sua indipendenza economica e sentimentale, dal suo orgoglio di essere una socialista, dalla soggezione che aveva per mia madre, da come guardava con amore mia sorella che già voleva diventare un archeologa.

Poi la vita è cambiata, la famiglia si è disgregata e quando chiedevo di lei ai miei genitori ricevevo sempre e solo risposte evasive. Del tipo: si è trasferita altrove, crisi lavorativa, un matrimonio naufragato dopo solo sei mesi, investimenti finiti in malo modo e, sussurrati e appena accennati, problemi con la droga, amicizie sbagliate, il desiderio di non invecchiare, la vergogna.

Un giorno di agosto io e lei ci siamo incontrati nel parcheggio di un supermercato mentre mia madre era ricoverata in ospedale e non l'ho riconosciuta. 
Lei invece mi ha chiamato per nome da almeno venti metri di distanza.

Ricordo ancora con tristezza e imbarazzo il momento in cui mi si avvicina una donna che non vedo da almeno quindici anni e che non riconosco e che mi abbraccia chiamandomi per nome e io resto immobile, con le borse della spesa fra i piedi, senza sapere che fare. Non apro bocca, non sorrido e penso di essere così sconvolto dalla malattia di mia madre che il mio cervello sta vivendo un momento di black out ma quando guardo negli occhi  questa donna ecco la riconosco e la chiamo per nome e mi viene da piangere. 

Ma non c'erano più le sue labbra, il suo naso, i suoi zigomi, il suo seno.
Tutto rifatto e gonfio.
Sfatto.
Instabile.
Triste.
Plasticoso.
Solo i suoi occhi erano rimasti quelli che mi avevano sconvolto l'esistenza.

Si vestiva ancora come una volta (tacchi, gonna, collane, orecchini, trucco) ma la sensazione era quella di trovarsi di fronte a una prostituta alcolizzata tutta rifatta e che voleva provarci con me ma poi abbiamo cominciato a parlare o meglio, lei mi rivolgeva una valanga di domande e io le rispondevo completamente schiavo dei suoi occhi, della sua voce e della sua meravigliosa padronanza della lingua italiana.

Le ho raccontato della mia vita di merda, di mia madre che non aveva un futuro, della mia compagna, dei libri che avevo scritto. 
Lei ascoltava e fumava una sigaretta dietro l'altra, annuendo, sorridendo ma senza mai commentare, criticare.

Quando ci siamo salutati e lei mi ha baciato sulla guancia con le sue labbra finte ho avuto un'erezione immediata e poi l'ho vista salire su una Porsche Cayenne e andarsene via.

La settimana dopo sono venuto a sapere che nel più completo anonimato era andata a trovare mia madre in ospedale.Provai a chiedere a mia madre qualcosa di lei, cosa si fossero dette, ma mia madre non volle mai rispondermi.

Da quel giorno nel parcheggio non l'ho più vista.

Queste righe sono dedicate a lei.
Perché mia madre mi ha insegnato a non dimenticare le persone buone che abbiamo incontrato nella nostra vita.

In questo caso anche di una bellezza assoluta da mettermi i brividi ancora oggi mentre ne sto scrivendo.


Un estratto:

Cena a casa dei direttori per festeggiare il lancio del nuovo prodotto. Sono seduti insieme a noi due nuovi investitori, due mocciosi insopportabili. La conversazione è insostenibile. Cerco di non farmi influenzare dalla superficialità ma la superficialità è sempre più forte della sobrietà, soprattutto quando si è attenti ai dettagli. Un altro triste lascito del barocco dei narcos è stata la propensione all'iperbole, ai gesti enfatici, ai simboli del potere con scritte al neon e musica incorporata. E il comportamento di queste persone dà una strana svolta al gioco di ostentazioni: il loro atteggiamento nasconde il cattivo gusto da narcos sotto un'apparenza minimalista, il design come una falsa pelle del vecchio animale barocco, l'esuberanza della cattedrale nascosta da un cubo di pannelli monocromatici. La violenza che si respira a tavola è il prodotto di quest'esercizio di repressione post. Per l'olfatto di un cane qui sarebbe in atto una guerra chimica tra le acque di colonia e gli umori corporali. Mi chiedo allora se i miei gusti non siano una forma superiore di repressione, come uno strato di apparenza al di sopra dello strato di apparenza dove questi quattro stupidi si annusano le scoregge. Un'atmosfera pesante che riesco a sopportare solo grazie al mio lungo allenamento basato sul sorriso automatico e l'aforisma.
L'altro motivo del festeggiamento è che i direttori, grazie alle loro conoscenza in parlamento, sono riusciti a far bocciare una proposta di legge con cui si voleva regolamentare la vendita delle droghe pesanti, un passo preliminare alla legalizzazione totale. Propongono un brindisi per le manovre di corridoio andate a buon fine. E brindiamo ovviamente, perché questo ci garantisce la continuità dei profitti dell'affare e la possibilità di posticipare il temuto cambiamento, che richiederebbe uno scenario dove il consumo e il traffico di droga siano totalmente legali.
Mi chiedo se in una situazione simile il mio lavoro smetterebbero di essere considerato un'aberrazione. Forse io e mia moglie occuperemmo la stessa nicchia ecologica, come creatori di stati d'animo artificiali. Forse io merito di diritto l'appellativo di artista, esattamente come lei.
Uno dei direttori, quello che non ha velleità intellettuali, non vede l'ora di raccontare i dettagli scabrosi della negozia con il parlamento. L'altro gli dà un colpetto con il gomito e propone un altro brindisi. Al nuovo prodotto che, a pensarci bene, non abbiamo ancora battezzato. Qualche suggerimento? I nuovi investitori propongono nomi con sonorità angeliche e celestiali ( ciò che si reprime, da qualche parte poi torna fuori). Io detesto mettere nomi alle mie creature, quindi mi limito ad applaudire tutte le proposte.” (pp. 46-47)


venerdì 19 ottobre 2018

"I Mandible. Una famiglia, 2029-2047" di Lionel Shriver (66thand2nd), un sorprendente e bellissimo romanzo distopico



Mi piacciono i romanzi (e anche i film) distopici anche se poi quando li leggo mi trovo spesso a sorbirmi storie e riflessioni che si ripetono senza aggiungere niente di nuovo: catastrofi naturali, complotti di multinazionali/stati fascisti, schiavitù e ribellioni. 

Insomma, oggi, ottobre 2018, io le trovo spesso storie rassicuranti, facili.

"I Mandible. Una famiglia, 2029-2047", splendido romanzo della scrittrice statunitense Lionel Shriver (traduzione di Emilia Benghi), è un romanzo distopico che pur raccontando la storia di un futuro distopico e di un crollo, in questo caso degli Stati Uniti d'America, lo fa in chiave finanziaria, raccontando di come un certo mondo andrà alla rovina per colpa dei mercati, delle Borse e di una certa politica economica.
Fin qui tutto normale, direte, ma l'autrice non è una scrittrice molto liberal o di una certa sinistra e allora la storia assume contorni e sfaccettature che potrebbero risultare ostili a tanti lettori e infatti in patria ha ricevuto anche accuse di razzismo ma che invece se letta con attenzione e partecipazione offre, a mio modo di vedere, proprio ciò che un romanzo distopico dovrebbe offrire: dubbi, riflessioni, paure, percorsi possibili o impossibili su un futuro che è li' dietro la porta.

Ho trovato di una bellezza e raffinatezza incredibile la satira inserita in questo libro e soprattutto il suo afflato liberatorio. "I Mandible" è stato un romanzo che mi conquistato sin dalla prima pagina e ci sono dei veri e propri passaggi da brivido, anche di una cattiveria e ferocia, che ti sconquassano lo stomaco.

Non aggiungo niente e per qualche informazione aggiuntiva potete dare un'occhiata alla recensione uscita su La Lettura ma in questi giorni mentre lo stavo leggendo a me capitava di entrare, dopo il lavoro, in un supermercato pieno di studentesse e studenti alternativi/punk/sinistrorsi figli di papà e mammà tutti alla moda appena usciti per la pausa pranzo dalla vicina scuola d'arte.
Ecco, ascoltando i loro discorsi, i loro atteggiamenti sono tornato quel ragazzino che ha sempre detestato tutte queste pose, questo modo di porsi, questi discorsi, questa spocchia per il lavoro manuale, per le cassiere, per il futuro che non sia quello del bengodi, per gli scaffalisti, per l'ignorante (a loro modo di vedere), per il denaro salvo poi spenderne in grande quantità solo per comprarsi uno spuntino o un paio di scarpe.

Da loro saliva quella puzza di superiorità di classe, morale, intellettuale del tutto conformista che mi ha sempre messo i brividi e intanto io pensavo a Willing Mandible, il ragazzino che affronta a viso aperto lo Stato, le gabbie delle tasse, l'idiozia di un mondo schiavo dell'assistenzialismo, della pace sociale, della censura delle parole, del conformismo e ho sorriso ringraziando la scrittrice per aver scritto un romanzo urticante come questo e che ha messo al muro anche il sottoscritto.

Anche per quell'ultima feroce frase che chiude il romanzo e che vale mille e mille riflessioni.




Rita Bernardini in sciopero della fame



Dichiarazione di Rita Bernardini del coordinamento di presidenza del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito a proposito della “rivolta” avvenuta nel carcere di San Remo:

“Se è questo ciò che Governo e Parlamento vogliono (per usare poi il pugno ancora più duro) la risposta sarà, per quel che mi riguarda, rigorosamente nonviolenta e sarà annunciata martedì prossimo a Radio Radicale nella puntata di RadioCarcere.
Sia chiaro, è innanzitutto lo Stato ad essere fuorilegge e, con le sue mancate riforme, a dichiarare di voler permanere in questa situazione di totale illegalità nella quale i trattamenti inumani e degradanti (già condannati nel 2013 dalla Corte EDU) sono all’ordine del giorno, a partire da coloro che non sono curati e che muoiono in carcere. Il caso del Prof. Armando Verdiglione, 74enne che in pochi giorni di detenzione ha perso oltre 25 chili è uno dei tanti esempi delle migliaia di detenuti che rischiano letteralmente la vita per mancata assistenza sanitaria e mancata possibilità di accesso alle misure alternative al carcere. L’unica ricetta proposta dal Governo è + carcere e + carceri con il preannuncio di un fantomatico piano di costruzione di nuovi istituti che, se va bene, saranno ultimati tra 10/15 anni; piano che, ancora non è dato sapere, con quali risorse verrà finanziato. Inoltre, le cifre ufficiali che fornisce il Ministero non sono veritiere in quanto il carcere di San Remo, secondo i dati diffusi sul sito www.giustizia.it al 30 settembre, non risultava tra gli istituti più sovraffollati, 270 detenuti in 238 posti regolamentari mentre la UILPA ci dice oggi che i posti “legali” sono 190.”




mercoledì 17 ottobre 2018

Come questa presunta manovra mi fa sentire un coglione

Sono uno che non ama particolarmente le tasse e i vari balzelli sparsi ovunque.

Troppo Stato intorno mi fa mancare il fiato e vi confesso che quando sento parlare di nazionalizzazioni, giuste o ingiuste che siano, mi sento di vivere in una società un po' troppo chiusa e opprimente.

Mi sono scontrato spesso con la burocrazia per questo e per quell'altro documento e ho vissuto sulla mia pelle cosa sia il malfunzionamento della Sanità con attese infinite per esami e visite. Successe anche a mia madre malata di tumore. E ci sono volte che mi chiedo a cosa mi serve pagare le tasse visto che fra trasporti, sanità e scuola ho vissuto problemi di ogni genere. 

Ma leggendo le linee guida della manovra neroverdegiallo mi sono sentito trattare come un coglione. 

Semplificando: col mio permesso/contratto di lavoro in Svizzera, con le mie ore di lavoro a pulire cessi e sale del cinema, a me le tasse sono prelevate in busta e versate in due Paesi, Svizzera e Italia, e quelle italiane dovrebbero, tramite i ristorni, servire per opere di bene pubblico nei paesi di confine e già sorrido perchè la strada appena superata la dogana di Ponte Chiasso è stata sistemata solo negli ultimi giorni.....per dire, la presa per il culo io l'ho vissuta in tutti questi anni.

Pago il bollo auto, l'assicurazione auto, cambio le gomme in autunno e primavera e tutto il resto dei servizi che mi vengono garantiti li pago sempre in anticipo.

Praticamente se avessi fatto il furbo sarei stato uno di quelli al quale potrebbero condonare tutto.

E poi leggo del condono mascherato (condonino, condonunccio, aiuto ai poverini) e mi risuonano nelle orecchie  quel tipo di discorsi che sento fin da piccolo in paese e non solo “Ma perchè paghi? Aspetta che poi sai...Ma perché mi chiedi la fattura?”...tutti discorsi pronunciati da quelle stesse persone che poi piangono e piangono e piangono e si lamentano sempre e che poi continueranno a evadere.

In realtà, e sono molto cinico, molte di queste persone non pagherebbero le tasse nemmeno se la tassa fosse di 1 euro all'anno ma sarebbero poi le stesse sempre lì a lamentarsi e a piangere per lo Stato vessatore e che non gli pulisce le strade dalla neve e dalla merda.

Cio' che mi fa schifo della politica consociativa, ipocritamente di svolta e prospettiva rivoluzionaria, è, per garantirsi voti, appoggi, prebende, preghiere, santini, statue, poesie, fiori e vergini, questa genuflessione costante agli istinti più beceri dei cittadini, a quella pancia che oggigiorno viene considerata Il Sentire Comune del Popolo, ai furbi, agli approfittatori, a quelli che del Paese dove vivono non gliene frega niente e che votano questo o quell'altro schieramento solo per ricevere un sussidio, un'agevolazione immediato, un aiuto per se stessi e la famiglia al seguito, per dare sfogo agli istinti più pericolosi che covano dentro di loro e dentro tutti noi. 

Questa manovra, e tante altre prima di questa, sono  la certificazione della mancanza di assunzione di responsabilità, non solo dei politici e delle istituzioni, ma anche di quella parte, consistente, di cittadini che sono poi quelli sempre pronti a prendersela con i politici, l'élite finanziaria, il complotto, l'Europa, Soros, i venusiani. 

Sono nato e cresciuto nella Brianza industriale e pur riconoscendo tutte le immani storture dello Stato non posso che vergognarmi di quei miei concittadini liberi professionisti, industriali, artigiani, operai, ristoratori, disoccupati che se ne sono sempre fregati delle tasse, dell'ambiente, dei contributi da versare, delle comunità stesse in cui vivevano per poi sbracciarsi a lamentarsi dello Stato e delle tasse.

E, badate bene, non voglio assolutamente mancare di rispetto o sentirmi superiore (perché sono a tutti gli effetti uno di loro) a chi  in tutti questi anni, dall'industriale all'operaio o dalla casalinga al contadino, dal farmacista al ragioniere, dal traduttore all'operatore sociale, ha faticato e  fatto sacrifici, lavorato e lavorato e lavorato  senza mai mettere da parte un soldo e alla fine ha ottenuto solo un sacco di calci nel culo e ha protestato, si è lamentato e si è anche legittimamente chiesto se non fosse ora di operare uno sciopero fiscale, di portarsi i soldi altrove, di farsi i cazzi propri, di vivere la propria vita da pensionato in Portogallo o Estremo Oriente.

Se un reddito di inclusione/cittadinanza, chiamatelo come volete, è qualcosa che in molti ritengono indispensabile/utile mi sarei pero' prima aspettato dai politici un discorso programmatico serio, severo ma anche di una speranza fondata, del tipo “Lavoriamo sulla struttura dello Stato, sul federalismo, sulla burocrazia, sull'apprendistato, sulla scuola, sull'efficienza dei servizi essenziali. Interroghiamoci su come si possa rinnovare il welfare state ma senza lasciare indietro i più deboli e bisognosi. Affrontiamo a viso aperto il futuro, la sfida tecnologica e l'incontro con le altre culture, senza rinchiuderci nell'isteria del piccolo è bello o nell'idea di un passato bucolico. Cooperiamo per arrivare a un vero stato di diritto e per gli Stati Uniti d'Europa. Sarà faticoso e duro. Ci state? Ci diamo una mano? Dovremo farci il culo ma un culo grande come una casa ma facciamolo insieme. Ne vale la pena se vogliamo garantire un futuro alle prossime generazioni. Dovremo tutti darci da fare.

Probabilmente un cittadino appartenente al Popolo Genuino risponderebbe “Ma me li dai questi soldi? E quando mi dai lo sconto per questo e quell'altro? E la possibilità di sversare gli scarichi tossici e di non pagare la tassa sui rifiuti?”

Mio nonno partigiano di ispirazione repubblicana e azionista mi ripeteva sempre di dubitare sia di quelli che piangono sempre, sia di quelli che ti promettono il sol dell'avvenire ma anche di quelli che ti parlano sempre e solo di sacrifici senza mai farti sorridere e gioire.

Se fosse qui mio nonno gli direi, Certe volte nonno mi sembra quasi di essere circondato esclusivamente da questo genere di persone e mi sento molto ma molto solo.



(Un articolo che vi spiega meglio queste cose)

(avevo scritto che non mi sarei piu' interessato di queste cose ma quando vedo la feccia leghista e i presunti rivoluzionari cinquestronzistellati ergersi a difensori della Gente, io mi incazzo eccome)


lunedì 15 ottobre 2018

"Resoconto" di Rachel Cusk (Einaudi)



Di Rachel Cusk ne avevo scritto qualche tempo fa.
Lei è una delle mie migliori scoperte letterarie degli ultimi anni. 
Tra l'altro la si può ammirare e ascoltare in uno di quei bei documentari letterari che passano ogni tanto su Rai5 e nella puntata dove veniva intervistata, se non ricordo male, c'erano anche Martin Amis e Will Self, ma potrei anche sbagliarmi.
Torno a scriverne oggi dopo aver letto il suo “Resoconto” uscito nel 2014 e pubblicato recentemente da Einaudi con la traduzione di Anna Nadotti e per una volta sono completamente d'accordo con tutti gli elogi di Ishiguro, Eugenides, Hilary Mantel riportati sul retro di copertina.
È un romanzo fatto di incontri e dialoghi, di amore e di abbandoni, di pensieri e sguardi, di letteratura, delle mie amate Grecia e Inghilterra. 
Una storia dove non accade nulla e dove accade tutto.
Di una lentezza straordinaria nel suo rapimento.
Ha bisogno di tempo e di una lettura ininterrotta.

Un estratto:

Ho detto che i miei figli, all'età di quei ragazzini saltellanti, erano così uniti che era difficile distinguerne il diverso carattere. Giocavano insieme da quando aprivano gli occhi al mattino fino a quando li richiudevano la sera. Il loro modo di giocare era una specie di trance condivisa in cui creavano interi mondi immaginari, ed erano costantemente impegnati in giochi e progetti la cui pianificazione e realizzazione era tanto reale ai loro occhi quando invisibile a chiunque altro: a volte io spostavo o buttavo via qualcosa che sembrava inutile, e mi veniva fatto notare che era un pilastro sacro nel mondo immaginario che stavano costruendo, una narrazione che sembrava scorrere come un fiume magico nella nostra casa, inesauribile, da cui uscivano e in cui rientravano a loro piacimento, varcando quella soglia agli altri invisibile e passando in un altro universo. Poi un giorno il fiume si era prosciugato, quel loro mondo d'immaginazione condiviso era finito, per la sola ragione che uno dei due – non ricordavano neppure chi – aveva smesso di crederci. Dunque non era colpa di nessuno; ma mi ero reso conto che gran parte di quanto c'era di bello nella loro vita era il risultato di una visione condivisa di cose di cui, in senso stretto, non si poteva dire che esistessero.
Suppongo, ho detto, che sia una forma di amore, credere in qualcosa che solo in due si può vedere, e in questo caso ha dimostrato di essere una base esistenziale precaria. Senza la loro storia condivisa, i due bambini hanno cominciato a litigare, e se prima i giochi li estraniavano dal mondo, rendendoli talvolta inaccessibili per ore, adesso i litigi li riconducevano costantemente al mondo. Si rivolgevano a me, o al padre, in cerca di mediazione e giustizia; hanno cominciato a dare maggiore importanza ai fatti, a ciò che era stato fatto e detto, e ad arzigogolarci sopra e in contrasto fra loro. Era doloroso, ho detto, essere testimoni di quel passaggio dall'amore alla fattualità come specchio di altre cose che accadevano in casa in quel periodo. Ciò che colpiva era la potenzialità negativa della loro precedente intimità: era come se tutto ciò che prima si trovava all'interno venisse spostato all'esterno, pezzo a pezzo, come i mobili trascinati fuori da una casa e depositati sul marciapiede. E sembrava essercene una gran quantità, perché tutto ciò che prima era utile adesso era superfluo. L'antagonismo tra loro era direttamente proporzionale all'antica armonia, ma mentre l'armonia era senza tempo e senza peso, l'antagonismo occupava spazio e tempo. L'intangibile diventava solido, l'immaginario s'incarnava, il privato diventava pubblico: quando la pace diventa guerra, quando l'amore si trasforma in odio, si genere qualcosa, un'energia mortifera. Se pensiamo che l'amore sia ciò che ci rende immortali, l'odio è il contrario. E ciò che sorprende sono le infinite minuzie che porta con sé, così che tutto ne è toccato. Lottavano per liberarsi l'uno dall'altro, eppure erano incapaci di starsene ciascuno per conto suo. Litigavano per qualunque cosa, si contendevano la proprietà di ogni quisquilia, bastava una sfumatura di tono per farli arrabbiare, e quando infine erano esasperati dalle minuzie passavano alle vie di fatto, ai pugni e ai graffi; il che ovviamente li riportava all'esasperazione, perché la violenza fisica implica le prolungate procedere della giustizia e della legge. Bisognava raccontare la storia di chi ha fatto cosa a chi, e stabilire i termini di colpa e castigo, ma neppure questo dava loro soddisfazione, anzi peggiorava la situazione, in quanto sembrava promettere una risoluzione che non arrivava mai. Più se ne specificavano i dettagli, più la controversia diventava ingombrante e veridica. Ciascuno di loro voleva innanzitutto che si dichiarasse lui nel giusto e l'altro in torto, ma era impossibile attribuire all'uno o all'altro l'intera responsabilità. E alla fine ho capito che non esisteva soluzione, non finché l'obiettivo era quello di stabilire la verità, quello era il punto. Non c'era più una visione condivisa, tantomeno una realtà condivisa. Ciascuno vedeva le cose esclusivamente dalla sua prospettiva: era solo questione di punti di vista.” (pp. 61-63)



giovedì 11 ottobre 2018

Una pernacchia al papa e tre saggi che ho letto

Sono uno di quelli che quando vedono Papa Bergoglio (e il resto dei papi) in tv cambiano canale.
Non mi scandalizzo per le sue posizioni sull'aborto.
E sinceramente non me ne frega un cazzo delle sue posizioni sui migranti, i diritti civili, le guerre.
Non ho mai compreso come una certa sinistra e anche tutta una parte di mondo laico (di destra e sinistra, compresi i radicali) si siano messi in testa di arruolarlo o comunque di considerarlo come un interlocutore possibile, un interprete di chissà quale messaggio divino da ascoltare. 
Se lo fai significa che sei uno scemo, un ottuso, uno in malafede o forse uno di quelli che ha sempre bisogno di essere rassicurato e che insomma insomma, anche tu ai miracoli e a tutta quella robaccia un po'  ci credi anche tu.
E poi ecco i baci alla reliquia, San Gennaro, Padre Pio, la Madonna.
I cattolici di sinistra.
La disgustosa fede popolare.
Mai fidarsi di preti, imam, rabbini, teologi e compagnia bella.
Per dire, a me gente come Don Gallo e Don Ciotti non mi son mai piaciuti.
Bisogna sempre tenere gli occhi aperti, sono piu' falsi e furbi di un qualsiasi borseggiatore i religiosi e i loro accoliti.
Poi ovviamente ci saranno quelli che arriveranno a dirti che il messaggio di Cristo o della Bibbia o di Allah è stato travisato...e ti toccherà ascoltarli...e a furia di sottrazioni uno gli vorrebbe chiedere: ma a cosa credi allora? Cosa c'è di cosi' tanto interessante in questa tua religione laica insipida?

Quando sono particolarmente innervosito rimpiango che i Savoia non abbiano raso al suolo il Vaticano e cacciato a calci nel culo il Papa verso un'isola sperduta.
La stessa insofferenza, badate bene, la provo per le altre religioni monoteistiche e non solo.
Ok i testi sacri ma anche basta davvero.

Mi passasse davanti Bergolio mi verrebbe voglia solo di fargli una pernacchia alla Totò.

Anche se poi persone come queste si meriterebbero solo l'indifferenza.




Sul tema religione un saggio interessante che ho letto in questi giorni, ve lo consiglio vivamente:


-qui-

e poi un altro:


-qui-


E poi c'è questo bellissimo libro di Riccardo Bauer che in pochi conoscono e che meriterebbe di essere riscoperto in questi mesi che non promettono nulla di buono. Ieri sera rileggevo Il Manifesto di Ventotene e mi sono commosso.



Oggi è una giornata così, di autunno schifoso e feroce solitudine esistenziale.



mercoledì 10 ottobre 2018

"Giorni senza fine" di Sebastian Barry (Einaudi)




Che bello finire sul sito dell'Einaudi e scoprire che è appena uscito un romanzo western di cui non sapevo nulla, “Giorni senza fine” di Sebastian Barry (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella) e poi andare in libreria e acquistarlo a scatola chiusa, fidandomi dell'estratto messo a disposizione e poi leggerlo tutto d'un fiato nel giorno di riposo. 

“Giorni senza fine” è un romanzo picaresco e violento che racconta, delicatamente e sommessamente, di un amore omosessuale fra due poveri cristi venuti su dal nulla che diventano soldati che uccidono indiani e combattono per Lincoln e che cercano di vivere insieme una vita migliore, dello sterminio dei nativi americani (le scene dei massacri sono lancinanti) e di ciò che sarebbe poi accaduto ai sopravvissuti confinati nelle riserve e ai bambini da rieducare, del razzismo contro i neri, del sogno americano che si scontra contro il muro delle sofferenze e della fame, della possibilità di rinascita. 

Dal punto di vista strettamente western non sono rimasto particolarmente impressionato da questo romanzo perchè la narrazione si inserisce in un consolidato sentiero revisionistico/realistico che ha offerto pagine e visioni memorabili e che conosco molto bene. 
A impressionarmi e catturarmi sono stati invece la maestria dell'autore nel rendere la prima persona, che sarebbe quella di Thomas McNulty, ragazzino fuggito da un'Irlanda ridotta alla fame. Una prima persona di una persona comune che nel raccontare gli eventi di cui è partecipe e testimone si esprime, sempre in chiave letteraria, come potrebbe esprimersi un migrante che fatica a leggere e scrivere ma che è interessato al mondo e a scoprire se stesso. C'è quel suono degli eventi e delle emozioni che ti entra in testa e ti trascina via e quasi ti impedisce di capire tutto, di comprendere la grande ruota della storia. Come se non ci fosse un filtro, se non quello della scrittura che impasta emozioni, orrori, sentimenti, riflessioni. 
A convincermi è stato anche come l'autore ha inserito il tema dell'omosessualità nel romanzo. Ovvero con una delicatezza estrema, operando su un movimento costante degli eventi e delle parole che si plasma sul corpo stesso dei protagonisti del romanzo (leggendo lo capirete, non ne voglio parlare, perché ciò che l'autore decide di far fare ai due protagonisti è tutta da scoprire), rendendo l'omosessualità parte integrante del romanzo sin da subito ma senza caricarla di pathos o di tragedie estreme, riuscendo così a trasmettere come sia qualcosa di perfettamente naturale l'amore fra Thomas e John Cole, calando il loro amore un'atmosfera magica e insieme estremamente realistica. 

E poi mi piacerebbe parlare della figura Winona, la piccola Sioux sopravvissuta allo sterminio e alla quale Thomas e John dedicheranno tutta la propria vita, ma qui mi fermo perchè mi sono saliti i lacrimoni e vi lascio un estratto:

Quel giorno sembravano indiavolati. Uccideteli tutti. Non lasciate vivo niente. Hanno ucciso tutti. Non ne è rimasto nemmeno uno per poterlo raccontare. Quattrocentosettanta. E quando hanno finito di uccidere, i soldati hanno cominciato a tagliare. Tagliavano la fica alle donne e se la stendevano sopra i berretti. Tagliavano le palle ai ragazzini per essiccarle e farci i portatabacco. Staccavano teste, mozzavano arti, cosí gli indiani non sarebbero andati nei felici territori di caccia. I soldati sono risaliti coperti di sangue e pezzi di carne. Schizzati di vene ricciute. Felici come diavoli che eseguono il lavoro del diavolo. Esultavano e urlavano fra loro. Zuppi di quella carneficina gloriosa. Mai sentite risate cosí strane. Risate grosse, alte come colline, larghe come il cielo. Pacche sulla schiena. Parole nere, più nere del sangue secco. Neanche un briciolo di rimorso. Il massimo della vita e della felicità. L'agognato massacro. Vigore e vita. Forza e desiderio esaudito. L'apice del mestiere di soldato. Il giorno della giusta resa dei conti.
Eppure durante il viaggio di ritorno sulle pianure c'era solo uno sfinimento profondo e un silenzio strano. I muli trainavano i cannoni dritti per la loro strada, spronati dai mulattieri. I soldati che avevano recuperato i cavalli s'adeguavano stanchi. Se il cavallo inciampava in una buca, buttava giù il soldato come un burba. Non riuscivano neanche a mangiare, quando ci siamo fermati a metà strada. Non riuscivano neanche a ricordare le loro preghiere. Uccidere ferisce il cuore e sporca l'anima. Il capitano Sowell è arrabbiato come il vecchio Zeus e sta male come un cane avvelenato. Non parla con nessuno e nessuno parla con lui.
L'altra creatura silenziosa è Winona. La tengo attaccata a me. Non mi fido di nessuno. Siamo passati in mezzo ai suoi parenti sterminati. Cancellati con un colpo di spazzola, come lo sporco e il sangue dalla giubba d'un soldato. Una spazzola di metallo, fatto d'un odio sconosciuto e implacabile. Anche il maggiore. È come se i soldati fossero piombati sulla mia famiglia a Sligo e ci avessero tagliato a pezzi. Quando il vecchio Cromwell tanto tempo fa venne in Irlanda disse che non avrebbe lasciato vivo niente. Disse che gli irlandesi erano diavoli e parassiti. Che avrebbe ripulito il paese per dare spazio alla brava gente. Per farne un paradiso. Invece adesso il paradiso americano lo stiamo facendo noi, mi sa. Però è strano che il lavoro tocca a tutti questi irlandesi. Ma così va il mondo. Non esistono popoli virtuosi. Winona è l'unica che non l'hanno gettata nel rogo. Ha visto il peggio, e neanche per la prima volta. Per questo è silenziosa, così tanto che il silenzio dell'inverno sembra un fracasso. Non riesce a dire niente. Devo tenermela vicina. Devo tenermela vicina e riportarla da John Cole. Gli chiedo semplicemente che devo fare. Glielo chiedo tre volte e non ottengo risposta. Provo la quarta. Tennessee, Tennessee, mi dice.” ((pp. 190-192)


martedì 9 ottobre 2018

Sylvia - Estate (e altro)

La voce di Sylvia, le sue parole, la sua musica mi si sono attaccate addosso sin dalla prima volta che ho ascoltato una sua canzone e sto parlando di Musica da camera.



Praticamente seguo Sylvia dagli inizi della sua carriera. Lei ha quella voce che si porta dietro le parole e le emozioni come una bava luminosa incollata sopra al cuore. Una presenza densa, stratificata, annoiata, depressa, scontrosa, improvvisamente luminosa, accecante. Una medicina che mi trova alle due di notte, solo, sveglio, con la mia compagna addormentata e stanchissima e stravolta, e io che sto pensando solo alla morte e a tutti i fallimenti collezionati in questi anni in ogni campo possibile. Le sue canzoni sono due occhi che ti guardano nella nebbia mentre sei a un passo dal mare, seduto sulle rive di un fiume di cui non ti ricordi nemmeno il sono. Le sue canzoni, le atmosfere che evoca, sono come dei singulti dell'anima. messi in musica. Sono un fantasma che immerge i piedi nudi in una pozzanghera fatta di tendini, sopracciglia e ricordi. Sono la corrente che ti trascina via verso una nuova stanza dove riposare e insieme l'equilibrio dei sentimenti che respira dentro alla schiuma sollevata dalle onde di un oceano che si chiama cuore. Sono quel corpo nudo nascosto sotto alle coperte e a un passo da quel soffitto che giocando con le tue dita ti impedisce di respira e insieme ti rivela denti, carezze, cielo, una città deserta e che si rivela a ogni angolo inesplorato, il nero denso delle lacrime che ti colorano le labbra, un porto di maledizioni.

Ascoltare le sue canzoni mi fa sentire libero.



Ho ascoltato le canzoni di Sylvia tutta estate, in particolare le tre contenute in Estate, “Sono verticale”,  “Schianti” e “Lo spettacolo (Demo Version) ma anche con costanza "Senza fare rumore" e che sono parte integrante del romanzo che sto rivedendo.

Ma quella alle spalle è stata un'estate durissima.

E l'autunno non sempre promettere meglio.


Intanto di Sylvia è uscita questa perla che si intitola "Prendimi"



E come sarà l'inverno?