Archivio blog

sabato 29 settembre 2018

Di bancarelle, pescatori e Michel Houellebecq


-il disco che avevo in testa-

Son belli i buoni sentimenti, le ragioni di tutti, pure i miei buoni propositi son belli ma poi a un certo mi viene voglia di un bello tsunami che sommerga tutto ma davvero tutto,.

Esco dal lavoro, annoiato e senza particolari motivi per sorridere alla vita, torno a casa e poi mi faccio un giro al parco visto che ho saputo che ci sono bancarelle di associazioni, comunità straniere, cooperative. Sono molto stanco ma ho voglia di prendere aria, è stata una giornata del cazzo al lavoro. Non ho voglia di leggere e nemmeno di scrivere e magari potrei incontrare il mio ex direttore per due chiacchiere o qualcun altro per discutere su come sta andando il mondo. 

Ma appena arrivo al parco, che sta affianco al lago, mi sale subito la voglia di tornare a casa. 
È tutto così a posto e così giusto che mi sale l'ansia. Non c'è niente fuori posto. Nessuna sporcizia. Anzi, c'è quell'insopportabile e melensa melassa che unisce le brave e giuste persone ai turisti con lo scatto in mano, gli intellettuali e politici da sostenere coi soliti predicatori insostenibili come codazzo e poi le bancarelle col cibo etnico, le perline per farci le collane, le classiche alternative super fighechic e i maschietti barbuti e poi pure Don Bosco e il rapper miserevolmente impegnato e quelle che parlano di cibo biologico e quegli altri che raccontano di viaggi in Tibet, Cambogia, Chiapas, Colombia, Sri Lanka e tutte quelle mani che ti offrono cibo etnico che quando lo mangi ti viene da vomitare e poi i diritti civili e i bambinetti e le perline e il cibo brasiliano.

Son scappato e non ho dovuto nemmeno pagare il parcheggio visto che la prima mezz'ora è gratis.

Dentro alle viscere mi porto la consapevolezza che lo strabordare assassino di Salvini e Di Maio (la stampa amica grilloleghista è da volstastomaco, leggere Travaglio è come farsi l'olio di ricino pensando che ci faccia bene e sorridendo a ogni dose) è anche la reazione, del tutto giustificata, a tutto questo tipo di mondo che ho vissuto oggi (e sin da quando son nato) e che sembra davvero vivere da sempre in una dimensione che mi mette il voltastomaco. Bello pulito, finto, pubblicitario, plasticoso, lezioso, ammorbidente come un qualsiasi spot di una televisione commerciale. Giusto come quello che prescrive la legge del Giusto che poi valla a capire questa legge del Giusto che poi vale solo per loro. Non c'è mai una sporcizia, mai una volta che ci sia un'ombra, un dubbio, una ragnatela. Impossibile. Perchè nel Pianeta dei Buoni non sono ammesse le discrepanze e le fratture e i drammi individuali. 

Io farei volentieri a meno di questa gente così come dell'accozzaglia merdosa che sbraita dai balconi per decreti e compagnia bella.

Voi, forse, obietterete: Ma a te che piace?
Non lo so.
Maliziosamente potrei rispondere Paula Shy perché sono un po' su di giri e anche perché sono un essere umano molto superficiale e allineato al pensiero unico ma in fin dei conti Paula é molto bella.

Ma sicuramente terrò sempre nel cuore l'immagine di un giovanissimo pescatore che ho incontrato alla foce del fiume.
La cesta accanto alla bicicletta e con dentro tre pesci appena presi.
Una canna erbosa bella tosta in bocca che solo a starci vicino mi mancava quasi il respiro.
La maglietta dei Blag Flag addosso.
Le mani gonfie di ulcere, ferite, tagli.
Ci siamo scambiati due chiacchiere.
Mi ha spiegato cose che nemmeno immaginavo sul lago, indicandomi il recipiente pieno di vermi e il movimento delle onde.
E stasera che è sabato? Gli ho chiesto.
Cioè?
Stai qui fino a notte anche se è sabato?
Se riesco stasera esco ma torno presto altrimenti mia madre mi fa secco. Domani devo mettermi sotto a studiare. Ma tu lavori al Cinema?, mi fa.
Sì .
Cazzo sei tu. T'ho visto quella domenica là dei cinque franchi. Lavoro del cazzo il tuo. T'ho riconosciuto subito che eri tu. Maglietta del cazzo avete.
E il persico e gli agoni come vanno?
Sei uno del lago anche tu?
Forse.
Forse anch'io. Ai miei non piace che passo il tempo così. Ma nemmeno voglio fare la fine di quelli.
Quali?
Quelli...-  indicando le bancarelle nel parco--....quelli ti fan cascare i coglioni...mica sarai anche tu uno di quelli? Impossibile ma non si può mai dire....ti dicon tutti una roba e poi te la mettono nel culo...prova a sgarrare con quelli....ti fan secco peggio che gli sbirri...e qui invece io sto sereno, tranquillo, mi sento bene...ma non gliene frega un cazzo a nessuno...

Ho sorriso e me ne sono andato sognando di mangiare un fritto di pesce di lago pescato da quel ragazzino del cazzo con una smorfia sul viso tipo quella di Rocky Balboa.

Altro che bancarelle accomodanti, sonnolente, coi politici e i salvatori del mondo, i bravi e le brave cittadine di questo mondo di merda,da sabato pomeriggio che avevano offeso il lago.





Andrea Consonni, Lugano, 29 settembre 2018

venerdì 28 settembre 2018

David Small e Davide Reviati

Mi accade di leggere due splendide graphic novel che mi emozionano, coinvolgono e mi fanno un male cane.

Non riesco nemmeno a parlarne con tranquillità. 
Mi è salito il magone mentre lo leggevo. 
Mi tremavano le mani mentre scattavo le foto.
Quanto ho letto a pagina 257 "Tua madre non ti vuole bene" sono scoppiato in lacrime.





L'altra graphic novel é "Sputa tre volte" di Davide Reviati (Coconino Press/Fandango) che mi ha commosso pure questa anche se da un mero punto di vista stilistico mi è piaciuta di meno  di "Stitches" ma che mi ha preso comunque tantissimo per un motivo molto personale, ovvero che la mia prima vera assoluta amica è stata una rom. 
Il suo viso è stampato nel mio cuore. 
Ed è anche su di lei che codifico e continuo a modulare i rapporti interpersonali:




giovedì 27 settembre 2018

Un'incursione, i libri e la famiglia

Quando mi chiedono del mio amore per la lettura, avrei tante risposte da dare.

Ma una di sicuro è questa: i libri, la lettura e anche la scrittura mi hanno salvato dalla mia famiglia.
E succede da quasi quarant'anni ed è successo anche oggi.
Non c'è niente di particolarmente educativo, intelligente, intellettuale, filosofico in questa mia risposta ma quando riassaporo l'aria del mio paese (che mi fa sempre piu' schifo), della mia casa (ormai, quando ci entro resto quasi esclusivamente in cucina), del mio quartiere (irriconoscibile), di mio padre riesco a respirare solo acquistando e prendendo in prestito libri che poi leggerò e di cui discuterò con la mia compagna.

Devo alle biblioteche e poi alle librerie la mia momentanea salvezza e quella precaria, fragilissima, incostante salute mentale e quel fragile equilibrio che ogni giorno vengono aggrediti dai peggiori pensieri possibili.

Mentre mio padre parlava e parlava e parlava e mi faceva sentire tutta la mia schifezza, la mia inutilità, i miei fallimenti, il mio non essere quello che avrebbe voluto, il mio non essere un bravo figlio di successo, a un certo punto mi sono inventato che dovevo andare in una biblioteca e a comprare libri e poi a far spesa anche se non ne avevo la minima intenzione. Tutto pur di  metter fine a quel processo sottile alla mia vita, alle mie esperienze. Tutto per non respirare ancora una volta quei messaggi silenziosi che mi dicono che sono un fallito, uno senza qualità, senza spina dorsale, un debole, un mentecatto. Tutto per non accettare quei giudizi, mai espressi veramente, sulla mia compagna, sulla nostra relazione. E mi ha pure tolto la voglia di andare al cimitero.

Non so se sia il modo giusto per vivere i libri. Non credo nemmeno che ne esista uno di definito. Ognuno la vive a modo suo. Ma per me i libri e la musica sono stati e sono ancora oggi una presenza fisica. Sono dei genitori, dei figli, degli amici, dei parenti. Il vento, le onde del mare, un bicchiere di vino, una carezza, un abbraccio e uno schiaffo. E quanto mi manca Rodi.

Nella foto una parte dei libri che mi sono portato appresso:



martedì 25 settembre 2018

Di tribunali, Miriam Toews e Partito Radicale

Mi capita per l'ennesima volta di varcare i controlli del Tribunale a Como per la richiesta del casellario giudiziale che mi serve per il rinnovo del permesso svizzero e scontrarmi con le solite lungaggini, schifezze, incrostazioni burocratiche tipicamente italiane.
Marche da bollo di diverso prezzo a seconda di quanto vuoi aspettare.
Paghi qualche euro in più e ti metti in fila e aspetti il tempo che serve mentre se non hai fretta paghi qualche euro in meno (quasi venti euro ho pagato) e lo ritiri tre giorni dopo. 

E una persona dotata di un minimo di intelligenza capisce subito che c'è qualcosa che non va e non é certo la fretta del cittadino.

Per non parlare dei luoghi ameni dove sei costretto a metter piede, della mancanza di qualsiasi privacy, della sensazione di sporcizia che respiri ovunque, di impiegati statali che non hanno il minimo rispetto per il cittadino, per me, un povero stronzo del cazzo, che sono lì, in quel momento, e che li pago con le mie tasse.
Manco "Buongiorno" sanno dire.
Educazione, gentilezza, ordine sono del tutto aboliti.
Anzi, le parole d'ordine sono arroganza e spocchia perché Stato e strutture di potere ti fanno sentire intoccabile e tu, povero cittadino del cavolo, sei una merda, uno che si deve inginocchiare, pregare per avere quanto ti spetta.

Per non parlare poi degli stessi cittadini che se ne fregano altamente di rispettare colonne, niente da fare e poi tutti a parlar male dello Stato con le loro lingue di merda. Hanno sempre più fretta di te, perché hanno a casa la mamma malata, il bambino che deve andare a scuola dentro al carrello della spesa, la macchina in doppia fila, la moglie che deve partorire, il fidanzato irritabile, il padre che deve tornare in garage.

Ah, dimenticavo, gli uffici sono aperti dalle 9 alle 1200 e al sabato te la devi cavare.

E po c'è qualcuno che parla di tener chiusi i supermercati di domenica.

Bene, vivo a Lugano e anche se è tutto chiuso, ed è pure una città turistica, si vive bene lo stesso anche se tutto sta chiuso. 

Ma sarebbe meglio invece tenere aperti i servizi pubblici, uffici, scuole, comuni, studi medici, posta anche di domenica. Modulate secondo l'utilità, ovvio, ma non è possibile che una persona comune per ottenere un documento del cavolo debba impiegare delle mezze giornate moltiplicate per chissà quante volte. Senza dimenticare le liste d'attesa vergognose per un esame medico. Mio padre per ottenere una visita con tempi ragionevoli una volta avrebbe dovuto fare quasi duecento chilometri di strada.

E continuo a pensare che i consigli comunali debbano proprio tenersi nei fine settimana per permettere alla cittadinanza di partecipare, discutere, litigare, dibattere.
Sto divagando come al solito....

E intanto che tornavo da questi luoghi ameni, e Como rimane una città che non mi piace per un cazzo (il campanilismo lecchese, verace, semplice, esce sempre), una voce femminile mi leggeva questo articolo pubblicato oggi su Il Foglio e scritto da Veronica De Romanis:




e poi c'è anche questo articolo su un libro che leggerò a breve:


e il libro è questo e sono anni che seguo Miriam:



....


Per non far morire il Partito Radicale. 

Io mi sono iscritto e non per farlo morire ma per farlo vivere e continuare a farlo vivere.

E tutto questo arriva dopo un percorso lungo ma che mi scalda il cuore e mi fa star bene.

Succede.

Devo tutto questo anche a Laura Arconti.

A lei va tutto la mia gratitudine.



Andrea Consonni, Lugano, 25 settembre 2018

lunedì 24 settembre 2018

Rachel Cusk



Sono settimane che ho la fortuna di leggere e rileggere romanzi di scrittrici fantastiche.

Rachel Cusk è una di queste.
Una vera folgorazione.

Per Einaudi è da poco uscito "Resoconto" (traduzione di Anna Nadotti):




ma intanto vi trascrivo un passaggio tratto da “Le variazioni Bradwhaw (Mondadori, traduzione di Silvia Pareschi):





Le case di Montague Street sono diverse dalle altre, strette e alte e bianche, georgiane, scomode. Il mondo offre sempre una piccola occasione di differenza, tra una grande maggioranza di cose tutte uguali; e altrettanto immancabilmente Tonie la coglie, ricordando solo in seguito che differenza non è sinonimo di correttezza. All'inizio si è infatuata della casa, e così la razionalità, la tranquilla riflessione e il buonsenso non avevano fatto presa su di lei. Si erano manifestati esclusivamente come elementi ostili che avevano sempre e solo cercato di scoraggiarla, e per questo le era sembrato corretto – di nuovo la correttezza – rifiutarsi di ascoltarli e liberarsene per sempre.
È vero che la casa è insolita. C'è qualcosa di stravagante nella sua forma stretta e alta, nelle finestre aggettanti, nell'aspetto vacillante e impraticabile. Somiglia più a un disegno – a uno schizzo – che a un edificio. Bastano pochi passi per attraversarla: appena varcata la soglia ci si trova davanti al minuscolo giardino sul retro. Quando le persone entrano c'è sempre un momento di sbigottita esitazione, un senso di fraintendimento spaziale, come se stessero per perdere l'appiglio sull'orlo di un precipizio. Poi si lasciano sfuggire un'esclamazione, in parte sorpresa, ma anche costernata. Tonie ci resta male. Lei e Thomas abitano in questa casa da sette anni, e la continua scoperta dei sui difetti, delle sue particolari magagne, le è sempre sembrata una specie di ammonizione. Le stanze buie al piano di sotto, le finestre piene di spifferi e il giardino troppo piccolo, gli infissi inclinati e i pavimenti irregolari, e soprattutto il dover andare sempre su e giù, su e giù, come una melodia in cerca di risoluzione, sono tutte cose che la sfiniscono e le logorano i nervi. Eppure l'ha  voluta lei, e adesso sta imparando la lezione, sta imparando che il desiderio è pericoloso, perché è calamitato dalla sua antitesi, la realtà. E la realtà, non meno automaticamente, è attratta dal desiderio. A cosa serve il desiderio, se non spinge all'azione? Vivendo nella sua casa esile e stravagante, Tonie è stata tormentata da nuovi desideri – per ciò che è anonimo, spazioso, schiettamente orizzontale. Ha immaginato grandi prati e garage suburbani, larghi viali, una casa bassa e spaziosa. Ora le sembra che sarebbe più facile distinguersi in una casa del genere; che il tempo correrebbe meno; che il soggetto umano si staglierebbe di più su uno sfondo neutro, di modo che il fascino del vivere – così ineluttabile, così inguaribilmente radicato nella sfera del desiderio – potrebbe alla fine concretizzarsi.
Era successo che tanti anni prima si era innamorata di quella casa: se ne era innamorata, e poi, a mano a mano che imparava a conoscerla, l'amore si era diviso e suddiviso finché la conoscenza era diventata più ingombrante dell'affetto. Questa è la lezione, il sermone: i fatti sopravvivono alle emozioni, e quindi la conoscenza è più potente dell'amore. Ci sono infinite cose da sapere, mentre la capacità di amare è una capacità, appunto, uno spazio che può contenere un tanto e non di più.” (pp. 23-24)


Oggi sono arrivato stravolto al dodicesimo giorno di lavoro consecutivo e finalmente domani riposerò, anche se appesa al muro ho una lunghissima lista di cose arretrate da sbrigare al più presto. Non devo lamentarmi perché in un periodo di crisi del cinema e non solo questi soldi mi servono parecchio.  E comunque mi rincuora che in un posto di lavoro ormai degradato, sfibrante, sfinito, incattivito siano rimaste integre piccole oasi (praticamente le mie oasi lavorative si sono ridotte a due/tre) come quella della mia collega Alessia, che mi ha prestato questo libro in inglese. Tutte le volte che parlo e mi confronto con lei, riesco almeno un po' a respirare e a non sentirmi un coglione in tutti i sensi:



sabato 22 settembre 2018

"Signor ministro, di che cosa dovete occuparvi se non dei bambini?" di Annalena Benini




Signor ministro, di che cosa dovete occuparvi se non dei bambini?
Il fallimento di una giustizia che manda i neonati in galera e se muoiono dice: state zitti

di Annalena Benini (Il Foglio-Il Figlio, venerdì 21 settembre 2018)

Chiedo al ministro della Giustizia, che davanti alla tragedia dei due bambini uccisi a Rebibbia ha detto che “i tuttologi gli fanno schifo”, ma anche a tutti gli altri ministri: di che cosa dovete occuparvi se non dei bambini? Su che che cosa dovete fare decreti, fare casino, scandalizzarvi, fare la rivoluzione, se non sui bambini che non devono stare in carcere? Il ministro Bonafede ha detto, di fronte al trattamento abominevole verso una madre georgiana che non parla una parola d'italiano, con i suoi due figli di sei e venti mesi (morti, lanciati giù dalla tromba delle scale, in carcere), che “c'è solo da stare zitti”. Zitti, e continuare a credere che sia normale che i bambini stiano in carcere in braccio a una madre probabilmente devastata che non sa nemmeno come dire: bisogna scaldare il latte. Che si trova in carcerazione preventiva (in attesa di giudizio, quindi presunta innocente), perché l'hanno fermata ed era su un'auto con i suoi figli e altri due uomnini, e su quell'auto c'era molta marijuana, e allora l'hanno arrestata. Lei che parla solo tedesco ha detto che non ne sapeva niente, ma con una bambina in braccio di cinque mesi (l'hanno arrestata a fine agosto) e un altro di un anno e mezzo è andata lo stesso in galera. Il ministro ha detto, per far tacere i tuttologi che appunto gli fanno schifo, che questa madre andava sorvegliata “acca ventiquattro”. Per la sicurezza degli altri cittadini? Che cosa poteva farmi questa madre, chiedermi due euro, provare a vendermi una canna? Andava sorvegliata non in carcere, proprio perché  (aveva, perché adesso sono morti) due bambini così piccoli. In carcere in base a quale principio, in base a quale studio, poteva stare meglio, riprendersi, rassenerarsi, riuscire a occuparsi dei suoi figli? Appunto: il carcere. È come se il carcere non ci riguardasse, come se quello che accade in carcere non succedesse davvero. Due bambini piccolissimi muoiono in carcere, e “c'è solo da stare zitti”. Signor ministro, a me non importa niente delle sue misure a tempo di record, del licenziamento della direttrice e vicedirettrice della sezione femminile, e anzi sono sicura che loro facevano tutto quello che potevano. Che cosa cambia adesso? Non erano loro a mandare in galera i bambini. Una società la valuti per quello che riesce a fare per gli ultimi, e questa donna con i suoi figli era proprio l'ultima fra gli ultimi, e questa nostra società allora ha completamente fallito: è stata disumana nella sua totale indifferenza. Quella giovane donna avrà avuto un avvocato d'ufficio che ha chiesto la scarcerazione, e questo avvocato dovrebbe incatenarsi da qualche parte e urlare che lui aveva sbattuto i pugni sul tavolo e poi si era inginocchiato per evitare la carcerazione preventiva a una piccola, debolissima, famiglia. Ma nessuno si è incatenato, e quasi nessuno si pone il problema, che non è di tuttologia ma costituzionale, che le mamme con bambini piccoli non devono stare in carcere. Che i bambini non hanno nessuna colpa e vanno protetti. C'è una legge complicata, c'è un diritto alla salute, c'era un pacchetto di misure dell'ex ministro Orlando, che diceva fra le altre cose: fuori i bambini dalle carceri, che è stato buttato via per paura di perdere voti. Meglio far morire i bambini che perdere voti. Va bene. Ma c'era una possibilità per questa madre con i suoi due figli: l'unica casa protetta di Roma, prevista dalla legge del 2011, ha posto per sei madri con i figli e ne ospita adesso soltanto quattro, mentre a Rebibbia sono tredici. Signor ministro, lei lo sa che che una bambina di sei mesi sta sempre in braccio a sua madre o le sembra una tuttologia? E che un bambino di venti mesi sa dire quasi solo: mamma? 


giovedì 20 settembre 2018

Su "Icarus - Ascesa e caduta di Raul Gardini" di Matteo Cavezzali (Minimum Fax)



Sono nato nel 1979 e gli anni che vanno dal 1989 al 1994 sono stati per me cinque anni molto importanti e decisivi a livello personale, familiare, nazionale e internazionale.

La caduta del Muro, la scomparsa del Partito Comunista, Mani Pulite, la guerra in Jugoslavia che spezzò in due il cuore di mio nonno, la prima sega di cui mi ricordo veramente e fatta pensando a Cristina, Gianni Bugno, i suicidi dei politici, gli attentati mafiosi, gente che prima era comunista e socialista e poi?, la Lega da tutte le parti, l'ingresso in collegio, il mese di vacanze a Pesaro, la faccia di Silvio Berlusconi, mia sorella che studiava 24 ore su 24, i Nirvana, la dissoluzione dei partiti storici, la mia prima vera  fase depressiva e molto altro. Compresa la crisi del tessile e del metallurgico che spazzarono via o misero in seria crisi intere fabbriche e famiglie del mio paese e della mia zona con lo stesso mio padre che prese decisioni quasi folli ma decisive affinché la nostra famiglia potesse continuare a vivere. 

Ricordo in maniera indelebile il fratello di mio padre, un consulente del lavoro, che entrava in casa nostra prima di cena e fra un Campari e l'altro parlava di disoccupazione, cassa integrazione, tagli al personale, ricollocamento, di un mondo che stava cambiando e di cosa si poteva fare per tenere un equilibrio virtuoso. A quei tempi la mia non era di una di quelle famiglie che applaudiva il Pool, anzi. Lo facevano perché sapevano che quello che sarebbe arrivato dopo sarebbe stato ancora peggio. 

Ed è anche per questo che mi sono deciso a  leggere “Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini” di Matteo Cavezzali (Minimum Fax), perché un po' come lui sono ossessionato da quegli anni, da quel cambio d'epoca, da quelle figure luminose, che irradiano tutto di una luce quasi magica e che poi finiscono nella polvere. Io per esempio, come ho già scritto in passato, rimasi scosso profondamente dalle morti di Gabriele Cagliari e Primo Moroni e ancora oggi quando passeggio per le strade del mio paese mi commuovo al ricordo di un tessuto industriale ormai morto e sepolto e una persona mi disse che dovrei scrivere un romanzo su quegli anni, su queste mie ossessioni, intrecciando storie nazionali, private e locali e forse  un giorno lo scriverò.

Mi aspettavo molto da questo libro ma ne sono uscito deluso.

Sicuramente tutta la parte di ricostruzione giornalistica, da reportage, è interessante e Cavezzali ha saputo ricostruire e raccontare la storia di Raul Gardini, della famiglia Ferruzzi, dell'economia italiana, di Ravenna (romana, bizantina e contemporanea) illuminando zone d'ombra della storia italiana, trame massoniche, evidenziando dubbi evidenti sul suicidio di Gardini. 

Il resto del libro, che in realtà è la parte piu' consistente, mi ha convinto invece di meno. 
Le parti più strettamente narrative e immaginarie mi sono sembrate timide, pulite, noiose, molto acerbe, senza alcun spunto stilistico rilevante, ma soprattutto pagina dopo pagina non ho mai sentito salire l'ossessione del racconto, l'ossessione di una storia, di un ambiente, di facce, corpi che si fanno carne dentro il lettore ma semplicemente ho subito il peso di un articolo giornalistico, lungo 230 pagine, ben costruito, certo, ma troppo rassicurante moralmente e mai veramente spiazzante.

Come se avessi nuovamente davanti a me una carta d'identità e delle carte giudiziarie e mai un corpo, un suono, una voce, un sudore, un cazzo, una scopata, un balbettio, un brivido di paura che si trasmette da carta a cuore.

Era come se stessi leggendo il solito libro col classico canovaccio sulla storia oscura dell'Italia ma senza che sentissi pulsare veramente il cuore di Raul Gardini e il vomito, la bile, i sogni, l'ardore, il sangue, la merda che fuorisce dal ventre di questa penisola.
Onestamente non l'ho mai sentito vivere in queste pagine lo spregiudicato uomo d'affari che toccò il cielo e ne fu bruciato. Mai una volta. E questo vale anche per il resto dei protagonisti e anche dello stesso scrittore e voce narrante del libro.

Ogni volta che leggo libri del genere sento la mancanza di scrittori come James Ellroy o David Peace, di autori insomma che sappiano prendere in mano la storia dell'Italia con coraggio e ardore,  senza tante concessioni al “giusto”, con tanto cuore e eccelsa qualità letteraria e bordate di ossessioni che ti facciano sanguinare le dita delle mani mentre stai leggendo.

Un estratto:

“L'idea era stata accolta con entusiasmo a Bruxelles e a Parigi, ma i nemici di Gardini venivano dall'Italia. Erano la Fiat, che temeva che l'etanolo avrebbe danneggiato la produzione di auto e benzina, e l'Eni. Il nemico numero uno del progetto etanolo di Gardini, però, è un nobile ambientalista toscano, il conte Carlo Ripa di Meana. È un intransigente, si definisce un “cane sciolto”, ma poi entra nel Partito socialista di Craxi, l'unico modo per fare carriera. E il partito lo premia, tant'è che in quegli anni ricopre l'incarico di commissario europeo per l'Ambiente. Un italiano contro un italiano. Un ambientalista contro un progetto ecologico. Per quale ragione? Ripa di Meana non è convinto dei buoni propositi di Gardini. “Perché dovremmo fare arricchire l'industria chimica sulle spalle degli agricoltori? Il progetto che ci propone il gruppo Ferruzzi è un bidone, un bidone di etanolo”, dichiara ai giornalisti. Così, sotto pressione dei gruppi industriali italiani, alla fine del 1987 arriva la bocciatura definitiva da parte della Commissione europea. A fare la differenza, anche in questo caso, è stato il voto dei parlamentari italiani.
Dieci anni dopo la morte di Gardini, Romano Prodi, diventato presidente della Commissione europea, scriverà: “Molti degli obiettivi di Raul non si sono potuti realizzare, stroncati dagli eventi della sua vita, ma molte delle sue visioni solitarie sono oggi un programma condiviso e sono alla base dei progetti più ambiziosi dei paesi avanzati, come nel caso dei carburanti alternativi e del rinnovamento di molte colture agricole”. (pp. 163-164)



lunedì 17 settembre 2018

"Rockaway Beach" di Jill Eisenstadt (Edizioni Black Coffee)



Ho comprato a scatola chiusa “Rockaway Beach” di Jill Eisenstadt, uscito originariamente nel 1987, e pubblicato quest'anno da Edizioni Black Coffee con la traduzione di Lorenzo Taiuti, perché sono sempre stato innamorato degli scrittori che facevano del cosiddetto Literary Brat Pack. Scrittori che ho letteralmente amato e su cui mi sono formato nell'adolescenza e giovinezza. Gente come Donna Tartt, Bret Easton Ellis, Jay McInenerney e poi altri come Tama Janowitz e Susan Minot ha lasciato su di me un'impronta indelebile.

Eppure “Rockaway Beach” nella prima parte è un romanzo che non mi ha veramente conquistato. L'avessi letto vent'anni fa mi avrebbe invece sicuramente dilaniato sin dalle prime pagine, affascinato, irretito con le sue polaroid di vita adolescenziale, di amori perduti e conflitti generazionali, di serate trascorse ad alcolizzarsi sulla spiaggia del Queens, di feste improbabili, di locali sgangherati, di stanze del college con coinquilini strafatti, di scherzi goliardici e noia infinita.

Ma da metà in poi Jill Eisenstadt mi ha invece letteralmente travolto quando si mette a descrivere con commozione e partecipazione la fine della giovinezza e l'inizio dell'età adulta, di quel sottile confine che separa quasi due vite distinte. C'è un momento in cui non ti riconosci più allo specchio e ti chiedi perché stai frequentando quelle persone, perché sei innamorato di quella donna, che cosa ci stai a faire in quel paese, in quella casa, su quella spiaggia con quattro amici che non sai più se sono degli amici o dei fantasmi. È quando scopri che da alcune scelte non potrai più tornare indietro e se vorrai farlo dovrai farcela da solo e non ce la farai mai, forse, e che tutto avrà delle conseguenze che non somiglia per niente a ciò che immaginavi e che non sono certo i postumi di una sbronza da risolvere con due aspirine. 

Sono pagine di un lungo addio segnate da una tensione salmastra, dai tentativi maldestri di trattenere il tempo, di non far passare le giornate ma anche di accorciare il respiro delle ore che ci mancano prima di andarcene, di baciare per l'ultima volta quella ragazza che è già altrove con la mente, il cuore e il corpo.
Sono pagine dove si descrive perfettamente come all'improvviso non ti importa quasi più nulla di tutto quello a cui prima tenevi tantissimo.
E ti senti solo.
Maledettamente solo.

Stavolta è Alex, ma lei canta invece di recitare la filastrocca, e gli passa le dita sulla schiena soltanto quando arrivano il corvo e la croce.
Timmy non vuole muoversi mai più. Non si è ancora mosso da quando l'hanno depositato lì con una coroncina di alghe...quanto tempo fa? Sloane ha sollevato una nuvola di sabbia con un calcio. “Direi che può bastare” ha detto, “Benvenuto nel Club degli Assassini”, e come gran finale si è fatto il segno della croce. Ma il vero finale si svolgerà sul ponte. Non c'era bisogno di dirlo, anche se Bean l'ha fatto lo stesso. Ha perfino avuto il coraggio di chiedere a Timmy “Ti senti bene?, prima che svenisse.
Ora se ne sono andati tutti, tranne ovviamente Alex; tranne ovviamente Chowderhead, che va qua e là, dice che non salterà; tranne ovviamente Peg, che dice che invece lo farà. Ha sempre voluto farlo, e ora lo farà. “Che vuoi che sia? Sloane non è mica un supereroe, chiunque può buttarsi da un ponte, che vuoi che sia?” Si capisce che è spaventata mentre cerca di accendersi una canna nel vento.
Timmy piega un braccio dietro la schiena e ferma la mano di Alex, la tiene stretta. È freddissima, e sudata allo stesso tempo. Si gira per prendere l'altra, entrambe se le preme sul petto. Non la attira su di sé come vorrebbe ma immagina di farlo. La sensazione della sua pelle, calda di sole
Alex guarda Timmy che la guarda. La marea si sta alzando, sta per bagnarli. L'acqua si allunga a sfiorarle la scarpa, poi si ritira, ci riprova, si ritira. Assomiglia agli esercizi di karate di Lars, per cui devi arrivare il più vicino possibile a una cosa senza colpirla, o al gioco dell'amore, quando vi piacete ma non osate toccarvi. Timmy è già bagnato, non c'è bisogno di avvisarlo. Ridotto così le fa venire in mente i giornalisti che ha visto oggi pomeriggio sulla spiaggia, e anche un gioco che facevano da piccoli. Si chiamava “L'uomo che è spuntato dal mare”. A turno ciascuno interpretava la parte di un tizio arrivato a nuoto dalla Cina, strisciava sulla sabbia mezzo morto di fatica e veniva preso d'assalto da una folla di giornalisti (gli altri), che parlavano tutti insieme e gli puntavano in faccia bottiglie vuote a mo' di microfoni.
“Ci dica, uomo che è spuntato dal mare, com'è stato? Di cosa si è nutrito? A che cosa pensava? Quanto ci ha messo? Perché l'ha fatto, e come vanno le cose in Cina? Lo sa che è famoso? Entrerà nel Guinness dei primati, come si chiama? Andrà in TV. Tutti la conoscono e tutti la amano, uomo che è spuntato dal mare”. (pp. 240-241)


sabato 15 settembre 2018

"Piaceri rubati" di Gina Berriault (Mattioli 1885)



Dopo aver letto “Piaceri rubati”, l'antologia di racconti della scrittrice statunitense Gina Berriault (1926-1999), non posso che ringraziare, emozionato, la casa editrice Mattioli 1885 e le traduttrici Francesca Cosi e Alessandra Repossi per avermi dato la possibile di scoprire una scrittrice incredibile, inedita fino ad ora in Italia, amata da gente come Richard Yates e Andre Dubus ma colpevolmente ignorata dalla stragrande maggioranza dei lettori. 

Sedici racconti avvolti da una silenziosa e assordante inquietudine, da un'umanità dolente e aggrappata ai bordi di un'esistenza andata a male, di sofferenza trattenute dentro alla bocca, di corpi avvolti dalla malattia che si fanno ultimatum lanciati al mistero della vita, di domande rivolte a noi stessi, di pianoforti attesi e mai arrivati, di esseri umani che bruciano nel cuore e finiscono dentro a una bara, di sconfitti e umiliati, di incompresi e fuggitivi. Le parole e le frasi sono misurate sul respiro dei protagonisti, sul battito del cuore che si nasconde dentro alle pareti. 

In queste pagine si viene scossi da una potenza sommessa ma dotata di una carnalità spaventosamente offensiva nella sua pura bellezza.

Leggere Gina Berriault mi ha ricordato le cene di famiglia che ho vissuto nella mia vita: tante persone radunate attorno a un tavolo in attesa di un'esplosione verbale, di un mal di testa, di una portata di lumache lasciata a metà solo per sfregio, di un racconto che non interessa più a nessuno, di una tinta di capelli sbagliata, del nuovo bracciale di perla da mostrare a tutti e poi succedeva qualcosa o non succedeva nulla e via fino al dolce e alla sigaretta, l'attesa resa vana e poi risolta da una rivelazione sopra le ortensie, una lacrima avvolta nel fumo delle sigarette. 

Sono rimasto incantato dalla pretesa che questi racconti sin dalle prime righe hanno di essere riletti, riassaporati, riabbracciati, quasi come se stessero flirtando con te o volessero rapirti o volessero baciarti tutto il corpo. 

Si parte con l'atmosfera angosciante di “Chi può dirmi chi sono?” con l'incontro fra il bibliotecario Alberto Perera e un barbone che legge, afferrare spazi di poesia e lo interroga sul senso dei suoni, della vita e gli chiede un posto dove dormire e poi la solitudine notturna al termine di un turno disastro di Alma, cameriera in un ristorante indiana, ne “Sognando nelle donne”: “Non era stato il senso di perdita a strapparla al sonno, ma la gratitudine per il fatto che il suo ragazzo, che l'aveva lasciata, le fosse stato portato via da un sogno, e da nient'altro.” (pag. 39); la bellezza assoluta del racconto “Piaceri rubati” e descriverlo sarebbe una vera follia, un torto alla scrittrice, va soltanto letto e riletto, gustato perché l'inquietudine molesta di queste pagine sono da brivido di piacere; la commozione che mi ha suscitato “Il cappotto” con quel figlio malato che torna a casa prima di morire: “Rintanato in un angolo, rivolto verso il muro, Eli si coprì la testa con il cappotto e sotto quella tenda buia pianse, confuso da quei due, dalla donna sulla panchina che aveva ripreso a pettinarsi e dal vecchio sulla barca che beccheggiava. Anche loro erano confusi da ciò che era accaduto, da quello che succedeva in quel momento e da quanto li aspettava, e non avevano nient'altro da offrire a lui, Eli, che era tornato a cercarli già abbastanza confuso della sua stessa vita.” (pag. 67); la riflessione su cosa sia una relazione fra un vecchio e una donna, su cosa sia l'amore mentre la vita scivola via verso il futuro in “L'infinito potere delle aspettative”; il declino, l'ascesa, l'anonimato, l'invidia, la solidarietà nell'ambiente musicale in “Notti nei giardini di Spagna”; la disturbante sequenza di un figlio che va a trovare il padre in un ospedale psichiatrico in “Lo spettatore”: “Perché lui era un padre che crollava sotto gli occhi del figlio, un padre giunto ai suoi ultimi anni di vita, al momento in cui tutte le circostanze della vita lo imprigionavano e lo uccidevano, mentre il figlio stava lì a guardare i suoi ultimi istanti di lotta per poi andarsene a prendere il tram.” (pag. 97); la radiografia di come si è ridotta una relazione d'amore quando vorresti essere da un'altra parte, essere un'altra persona, stare con qualcun altro e non ce la fai e non ce la farai mai in “Morte di un uomo minore”; la ricerca folle, parodistica quasi, dello scrittore perduto, del nostro idolo disperso, sconosciuto per dargli un volto, per dargli un corpo in “La ricerca di J. Kruper”; un altro di quei racconti che lascia il segno in maniera assoluta è “Bimba sublime”, onestamente non avevo mai letto un racconto che trattasse di questo argomento (morte della madre, relazione/pulsioni della giovanissima figlia con l'amante della madre) con tale delicatezza e precisione nella descrizione delle emozioni, senza mai scadere una sola volta in qualsivoglia tentazione pruriginosa; la paranoia che trasuda da ogni pagina di “Il diario di K.W” è una di quelle esperienze che merita di essere vissuta appieno; la mia immedesimazione quasi totale con “Il bambino di pietra” che non piange dopo aver ucciso per sbaglio il fratello, leggetelo questo racconto, affondate negli abissi di cosa può essere la vita umana; il sottilissimo confine fra realtà e sogno in “Scherzi dell'immaginazione”, il racconto che forse mi ha meno convinto dell'antologia; la precisione nel descrivere l'assoluta solitudine di un'amante in “L'amante”; il dolore di essere una madre e una donna in “Myra”: “Quattro scatole di fiammiferi sono rivolte l'una verso l'altra a formare una piazzetta il cui fondo in estate è duro come la roccia e quando piove si riempie di buche, e le tante scatole e le loro piazzette formano un labirinto che ricopre la valle.” (pag. 188); del racconto “La luce alla nascita” non vi dico nulla, perché di notte sono anche io uno che si alza scalzo senza fare rumori che possano disturbare il raduno di sconosciuti che affollano le pareti, le voci che escono dalle stanze, le visioni che si muovono al ritmo delle tende, nascondendo la mia smorfia per il ricordo di mia madre morente su letto lasciato al sole.

La speranza, dopo aver letto questi sedici racconti, è che la Mattioli 1885 o altre case editrici abbiano il coraggio e la passione di proseguire nella preziosa e necessaria opera di traduzione (che so bene quanto possa essere rischiosa e poco remunerativa) degli scritti di quella straordinaria scrittrice che è stata ed è Gina Berriault.  




mercoledì 12 settembre 2018

Un'incursione - su Monte Brè, resort, turismo, governi e merde intellettualchic


.


Vivo e ho vissuto in luoghi considerati turistici e sin da bambino ho vissuto, respirato, gli scempi edilizi, l'inquinamento dei fiumi e dei laghi e le sue conseguenze, l'edificazione selvaggia per scellerate scelte urbanistiche e per permettere alle solite persone o a quelli che se lo potevano permettere coi soldi e le amicizie di costruire nei luoghi migliori, vista lago, vista monti.

I piani regolatori sono carta eccelsa per pulirsi il culo.

Ho visto una città votarsi al turismo e intanto dimenticarsi che in quel posto ci vivono delle persone che vorrebbero prima di tutto viverci in quelle case, in quelle strade, in quelle piazze, senza per forza trasformarsi in operatori turistici, camerieri, guide, cuochi, cameriere ai piani, pizzaioli, esercenti. Senza per forza inventarsi tutto pur di attirare, risucchiare, sponsorizzare, invitare, prostarsi.

Ma prima ancora bisognerebbe tornare a ragionare su cosa significhi vivere e non sopravvivere.

Conosco persone come mio padre che quando andiamo nella mia amata Lecco la prima cosa a cui pensa sono sempre e soltanto i turisti e io invece  che vorrei parlargli d'altro, di come Lecco sia una città altra anche se ha il lago ma è impossibile trovare un punto d'incontro e anche del tutto inutile visto il lavaggio del cervello che è stato costruito in questi anni di sballo fisiologico, perché la mente e il cuore sono da sempre solidali con le vie urinarie e l'ano.

Qui in Ticino ci sono luoghi bellissimi distrutti, violentati, ville liberty abbattute, colline e montagne divorate da gru e palazzine signorili/padronali, hotel e dimore da sbronza e il futuro è ancora peggiore se poi uno scopre quello che potrebbe accadere a Monte Brè, sopra Locarno, con l'edificazione di resort per milionari di chissà quale provenienza, case abbattute, campi da golf, strade e cemento.
La logica dell'esclusività come dimensione spirituale da sponsorizzazione continua.

Un luogo bellissimo, intimo, semplice, dedicato alle famiglie, a tutti e invece tutto questo prima o poi finirà perché quella vista attira investimenti, speculazioni, cementificazione, utili, parcelle e il Ticino Turismo lo rivenderà come immagine virtuosa e appagante in tutto il mondo e avvocati, notai, costruttori, stato si divideranno il bottino e organizzeranno serate, feste, fuochi artificiali.

Salviamo Monte Brè e basta.

..

Ma salviamo il mondo e le città anche da una merda come Red /Feltrinelli che apre a Milano.
Un piatto biologico di qualità fra un libro di qualità e una presentazione di quell'autore che si sforza di tirare a casa quattro soldi  un biglietto della metro per congiungersi all'ideale, la sensazione di trovarsi in un luogo culturale che si oppone alla deriva populista dove far circolare idee e bellezza, una puntatina da Eataly per mangiare la prelibatezza italiana coi baffi di Farinetti, la visita per rilassarsi alla Fondazione Prada, il giro in metro, l'assaggio dell'acqua dei Navigli per riannodarsi alla Milano che fu e che fa tanto figo.

....


Tutti che ce l'hanno con Salvini.
Ovvio.
Impossibile non avercela con lui per una parte dei sinistri di rimbalzo e anche per me.
Ma l'orrore che mi provocano i 5Stellati è al solito da vomito.
E come ha scritto bene e continua a scrivere Jacopo Iacoboni le affinità fra Lega e Stellati sono evidenti, al di là delle manfrine da prima asilo nido che stimolano le erezioni dei conduttori di talk show televisivi e dei loro spettatori.


-qui-

Continuo a considerare peggiore ciò che sta alla base dei Cinquestellati e tutto il loro operato.
Perché per me sono la parte più fetente della penisola e son stanco di capire le loro motivazioni, basta davvero.
Altro che chiedersi dei voti andati alla Lega, sarebbe ora di chiedersi come qualcuno abbia potuto votare questa roba qui....lo so, riflessioni sulla sinistra in declino e bla bla bla...

E intanto mi fanno solo sorridere i presunti giornalisti con la schiena diritta del Fatto Quotidiano...

La Lega la conosco bene (anche se del federalismo di Miglio non è rimasto nulla, ovviamente, perché nazionalizzazione, patriottismo, statalismo sono la linfa per tutti gli opportunisti), da Salvini mi arrivano messaggi che sento da sempre qui al Nord, in realtà sono l'espressione, molto ma molto ma molto abborracciata, di alcuni filoni di pensiero (e senza un minimo di consapevolezza e spina dorsale e coraggio che fanno tanto parte della loro retorica, perché la loro retorica è la dimostrazione dell'incapacità non solo di analizzare la realtà ma anche di interpretare le difficoltà di chi li vota) che ho studiato nella mia vita, in versione grottesca, razzista, clientelare, liberista ma quando sento parlare Di Maio, Di Battista o mi capita di incrociare la faccia ienesca di Giarrusso io mi sento spossato per l'inutilità anche solo del dialogo o dell'analisi di cui mi dovrei far carico perché questa gente mi fa cosi' schifo che non saprei nemmeno cosa dirgli. 


Impossibile. 

È il trionfo dell'ignoranza coatta, manifesta, brutale, ignobile, fintamente rivoluzionaria che piace tanto al popolo col cappio in mano e la morale in saccoccia.

Ciò che ha prodotto e produrrà nei prossimi mesi questo movimento digitale, basti anche solo ascoltare Toninelli o il ministro Bonafede, regalerà delle ferite che a ripulire i cessi dopo tutto il vomito e la merda e il piscio lasciati ci vorranno mille e mille catastrofi.

Altro che quell'idiota merdoso certificato di Salvini.




(Pensavate mi fossi addomesticato?)



martedì 11 settembre 2018

"Uomini e cani" di Omar Di Monopoli




Non è da molto che è stato ristampato da Adelphi ma per quanto mi riguarda “Uomini e cani” di Omar Di Monopoli, che possiedo e ho letto nella vecchia edizione Isbn, è uno splendido romanzo noir/western/sanguinoso/feroce che nulla ha da invidiare ai tanto celebrati scrittori stranieri. Si rincorrono tanto le paludi della Lousiana o texane o i bassifondi newyorkesi ma Omar Di Monopoli ricorda a tutti che la carne viva per scrivere romanzi di un certo genere (e non solo quelli) è lì, davanti agli occhi di tutti e che basta soltanto aprirli questi occhi  e vedere la Puglia con le sue storie e i suoi ritmi, suoni, fragori alla Sergio Leone.
Ho apprezzato questo romanzo anche per il finale, con l'autore che non concede quasi nulla alle facili aspettative del lettore, senza ricorrere al manierismo o a facili scorciatoie. 
Perché alla fine quella che racconta è una storia di uomini, merda, vendette, abusivismo, stato mafioso, cani e sangue e questa roba è roba che non ha bisogno di scorciatoie.
Si legge tutto d'un fiato.
E poi non si sa se si ha voglia di scappare, andarsene o starsene sul balcone con un fucile in mano.

“... Quello che non vi entra in testa, dotto', continuò la donna in tono dimesso ma severo, è che la gente di qua non riuscirà mai a digerire l'idea che ci si possa preoccupare tanto per un paio di uccelli e qualche albero, dotto', mentre ci stanno cristiani che non ce la fanno ad arrivare a fine mese, mentre ai contadini basta una brutta grandinata per vedersi sfumare un anno di fatica sciancaossa, mentre la conclusione dei lavori dello stadio comunale passa da più di dieci anni di giunta in giunta senza soluzione, e intanto in paese non esiste una biblioteca, un cinema o un circolo ricreativo, né un diavolo di bar dove i giovani possono incontrarsi senza pagare il pizzo a qualcuno...
Ma, benetto Signore, queste sono cose che potremmo ottenere proprio grazie a...
 Dotto', lo interruppe ancora la grasone, qua a bbàsciu, dove ormai pure le lacrime e i sorrisi c'hanno rubàto, non ci possiamo proprio credere che qualche papera spennacchiata c'abbia più diritto di noi a vivere una vita degna di questo nome...” (pp. 204-205)


domenica 9 settembre 2018

Su "Se basta un fiore" di Giulia Blasi (Piemme)


C'è stato un periodo in cui le persone mi dicevano di staccare quando stavo particolarmente male. Un professore in Collegio mi consigliò quando rasentavo gli abissi peggiori della depressione, visto che tutto il resto delle attività non sembravano far parte di possibili scelte che avrei potuto prendere in considerazione, di scegliere fra le mie letture qualcosa di meno “pesante” e fu così che scoprii del tutto Philip L. Dick e altri autori che propriamente leggeri e superficiali non sono ma che secondo il gusto accademico, serioso, fanno parte di quegli autori che se li leggi allora sei un mentecatto. E tanto per dire, io sin dall'infanzia adoro Enid Blyton. E chi la conosce Enid Blyton?
Ma perchè son venuto a parlare di queste cose? Perchè è un periodo di angoscia, di problemi sul lavoro che nei prossimi mesi sbocceranno in disastri, di classiche mattine che quando mi sveglio non so nemmeno perché mi sono svegliato e vorrei solo piangere e fare a meno di cibo e parole e giustificazioni e vorrei solo stappare la prima birra alle 5, evitando il caffèlatte, la sveglia, gli antidolorifici per quietare il dolore alle spalle e alle dita delle mani.
Eppure non riesco mai a smettere di leggere e leggo e leggo e ogni tanto ho voglia anche io di staccare la spina e di leggere qualcosa che non sia per forza Dubus, Checov, Yates, Céline e cerco e cerco e allora mi son detto perché non provo a leggere qualcosa di Giulia Blasi che ho conosciuto seguendo Elly Schlein e Possibile e l'ho seguita in un intervento a Politicamp e sembrava avere la mia stessa ansia quando parla in pubblico e allora tramite il fantastico prestito bibliotecario mi son fatto arrivare il suo “Se basta un fiore” (Piemme).
Ecco.
Vedete, io potrei scrivere una recensione di quelle noiosissime che ho scritto nella mia vita.
Dove analizzo tutto e non solo tutto.
E scrivere che in questo romanzo c'è forse troppa carne al fuoco e che sembra accadere tutto ma davvero tutto, fra divorzi e stupri, anoressia e rapporti lgbt, palazzinari e Roma, famiglia e bulimia.
Che la parte guerrigliera secondo me è molto debole.
Ma quello che voglio scrivere è che quando ho aperto questo libro avevo le mani, la schiena, il cuore, il cervello, lo stomaco, le ginocchia rotte, distrutte e che avevo appena bevuto sei birre e che Giulia Blasi mi ha fatto star bene come ti fa star bene un'amica che ti accarezza i capelli e intanto le parli di Nirvana e Hubert Selby Jr e ho letto e ho letto di Max e Clara e Roma e di feste e sorprese e tumulti del cuore e di piscine dove mi sarei volentieri tuffato e mi sono commosso e ho sentito la lingua sanguinare la mia adolescenza con le sue pozze di vomito e le mutandine abbassate e le lacrime e le fughe e i colpi di testa e le amicizie che manco sai perché le hai strette, nello stomaco i miei turbamenti di allora e di oggi perché l'esistenza non ha età, il viso di una ragazza irraggiungibile e la Senna che si appoggia al fianco di una ragazza coi capelli rasati che vorrebbe essere altrove, nella testa la voce di mio padre che mi dà della merda perché sono troppo timido e dovrei applicarmi tutto e le volte che rischiai di morire non  mi rivolse nemmeno la parola e lo farà sempre.
E quando ho chiuso il libro erano le nove e mezza di sera e stavo bevendo una birra.
E sentivo in bocca il sapore di questo romanzo.
Forse basta un fiore per sentirsi meglio.
O forse no.
Ma sul mio balcone custodisco e curo una pianta che mi ha regalato una donna che mi ha rovinato la vita.
Una beaucarnea che si chiama Maria come chi me l'ha regalo' per il mio compleanno.
Dai suoi rami non sbocceranno mai fiori.
Ma la accudisco e sarà per sempre una parte di me.



venerdì 7 settembre 2018

Nicole Krauss, una scrittrice


Nelle mie tre settimane di ferie (non pagate) mi ero fissato degli obiettivi, alcuni completamente disattesi, anche per questioni monetarie, mentre altri per fortuna raggiunti, qualcun altro completato già a stagione lavorativa ripresa ormai da quasi tre settimane. 
Uno degli obiettivi che mi ero prefissato era di  completare la lettura di tutti i romanzi di Nicole Krauss. Mi mancava solo “La grande casa” (Guanda, traduzione di Federica Oddera) e e le sue 334 pagine mi sono volate via in un paio di giorni lasciandomi in uno stato di estasi, invidia e insieme commozione. Nicole Krauss è una straordinaria scrittrice capace in tutti i suoi romanzi di unire uno stile impeccabile, purissimo, che esige dal lettore un'attenzione e una devozione totale a una trama che avvolge il lettore e lo conduce affamato sino all'ultima pagina del romanzo, il tutto condito, stratificato e avvolto in un bozzolo avvolto alla linguacuore, da riflessioni sull'identità, l'Olocausto, l'ebraismo, la memoria, la famiglia, l'abbandono, la solitudine, l'amore, la depressione, l'essere figli, la discendenza, l'ossessione. 
Leggere Nicole Krauss è staccarsi dal mondo senza mai abbandonarlo. 
È sedersi su un divano e cominciare a leggere e non smettere per sei ore, sedersi a una scrivania che non ha tempo e mettersi a scrivere una lettera a un donna amata o un defunto che mai abbiamo conosciuto. Io so già che qualcuno vorrebbe chiedermi: ma la trama? Cosa succede in questi libri? Se vi interessano andateveli a leggerli, a me annoia parecchio raccontarvi le trame. 
Per quanto mi riguarda, so solo che Nicole Krauss è una scrittrice che mi accompagnerà fino a quando avrò un briciolo di salute mentale. 
Tutto il resto è un blablablablablabla....
E comunque il capitolo “Vera gentilezza” de “La grande casa” mi ha stravolto completamente perché descrive esattamente il rapporto che incontro con mio padre ma dal punto di vista di mio padre. 
Le ultime righe di questo capitolo mi hanno fatto perdere anni di vita.


-qui-


-qui-


-qui-


-qui-



Andrea Consonni,  Lugano, 7 settembre 2018

mercoledì 5 settembre 2018

Herself -The Beast of Love


Uno dei pochissimi Artisti che rispetto e amo in Italia.
Pochissimo ascoltato e conosciuto.
Spirito sensibilissimo, scorbutico come piace a me.
Uno dei pochi che scrisse del mio romanzo d'esordio.
Uno il cui abbraccio secoli fa a Bergamo fece sparire giorni e giorni d'inferno.
La prima e unica volta che l'ho incontrato nella mia vita.
Uno che ha scritto, suonato, cantato una delle canzoni piu' importanti della mia vita.
E niente, tutto qua
Lo trovate anche in tour. 
Con i Mercury Rev.




Andrea Consonni, Lugano, 5 settembre 2018

lunedì 3 settembre 2018

La rivista "Gioia", i tempi cambiano e mia madre e oggi





Non so quanti dei frequentatori di questo blog leggano abitualmente il cartaceo di un giornale, di una rivista, di un settimanale o di un mensile. Io sono uno di quelli. Li compro, mi sono abbonato e se non ho voglia di spendere soldi cerco di trovare il tempo di andare in una biblioteca e sfogliare la copia del giorno o gli arretrati. Mi piace leggere anche i giornali gratuiti svizzeri (ilMattino della Lega dei Ticinesi è una roba lisergica, quasi quantica nella sua idiozia) che si trovano sulla strada. Su internet leggo molti meno articoli rispetto a quelli che leggo sul cartaceo. Per dire, anche il formato telematico mi è ostico. Sabato scorso ho provato ad acquistare la copia del sabato de Il Foglio e ho notato subito lo scarto fra ciò che è la bellissima copia cartacea e l'orrida copia digitale. Prego che il cartaceo non scompaia mai.

È una tradizione di famiglia quella di leggere il cartaceo, lo fanno ancora anche mio padre e mia sorella. 
Lo faceva anche mia madre.
Sfogliava e leggeva Repubblica.
E poi fra le mani Gioia e Vera che le arrivavano in abbonamento.
E che bello trovarle nella cassetta della posta e portarle trafelato le copie.
Ho negli occhi l'immagine di mia madre con le gambe accavallate, i capelli ramati che le scivolano sulle orecchie, la MS fra le labbra che legge Gioia, beve un caffè, parla di vestiti e colori con mio padre e gli chiede cosa faranno domenica.

Oggi, ho scoperto che Gioia chiude e quante volte l'ho letta pure io.

Negli ultimi anni, prima che morisse, mia madre continuava a riceverla ma diceva che non era più lo stesso giornale di una volta. Forse perché era lei a essere invecchiata, forse perché la rivista era in declino e faceva schifo (onestamente, a ripensarci, propendo per la seconda ipotesi), forse perché i tempi stavano cambiando ma mia madre la leggeva quasi controvoglia.

Quando fu ricoverata leggeva i giornali che le portava mio padre e La Settimana Enigmistica ma le importava di più che io le raccontassi dell'albergo dove lavorava la mia compagna e delle acconciature delle infermiere e delle dottoresse. 

E oggi se fosse stata viva sarei andato da lei avrei preparato una moka da sei per lei e una da sei per me, ci saremmo messi sul balcone che dà sulle colline e le avrei raccontato della giornata a 5 franchi di ieri al Cinema e sono sicuro, strasicuro, che lei mi avrebbe fatto tante domande, mille critiche, che avrebbe voluto sapere tutto e tutto e poi magari avrebbe preparato altro caffè

Ed è incredibile che proprio in questa prima settimana di settembre io compresi che mia madre sarebbe morta.

La giornata distruttiva/autodistruttiva di ieri è dedicata a mia madre e alla mia compagna.

Senza il loro appoggio, le loro idee, la loro forza non potrei mai superare giornate del genere.

------------ E tutti i film in programmazione nel cinema dove lavoro fanno cagare. Ed è assolutamente inutile anche solo menzionarli.