Ci sono situazioni in cui qualcuno mi dic:e Ma sai tu te lo puoi permettere di parlare così, di fare il fighetto di sinistra perché leggi libri, stai coi letterati, frequenti mostre, vai di qua e di là, stai con la meglio gente e allora a me girano le palle e mi tolgono anche tutte le residue voglie di scrivere qualcosa su questo blog e sapete, per me ognuno può frequentare quelle cazzo di persone che vuole o che in quel momento può frequentare. Capita di frequentare, conoscere, stringere amicizia con persone che poi col tempo non avresti mai voluto frequentare o almeno a me è capitato e a qualcuno no ma non so nemmeno se invidiarle quelle che frequentano solo le persone che vogliono frequentare.
Per dire, io non mi vergognerò mai di esser salito sull'Audi millenaria di un tossico buonissimo che mi ha offerto un passaggio per un concerto e mentre lo dava lo ascoltai parlare per trenta minuti di sesso, eroina, fabbrica e Ummagumma.
Però, tanto per essere chiari, e non per giustificazioni, io non frequento di persona quasi nessuno, non vado per mostre o concerti, non vado a presentazioni letterarie o festival, se esco lo faccio in solitaria o con la mia compagna e lo faccio per montagne, passeggiate nei boschi, far spesa, lago e parenti (poche volte i parenti). Gli unici letterati che sento e che amo fraternamente uno sta a Berlino e l'altro fa il farmacista in Toscana. Con tutto il resto del mondo letterario/artistico/musicale/politico ho scambi puramente tecnici, quando capita e quando non ne ho sto meglio ed evito ogni possibile scambio ulteriore.
Le persone che frequento sono solo quelle che mi stanno intorno per il mio lavoro al cinema e solo negli orari di lavoro: i colleghi, i responsabili, il direttore, la segretaria, quelli che puliscono i cessi come me, i camionisti che mi portano il materiale, i due fornitori che mi perseguitano e tutti gli elettricisti e gli idraulici che vengono al cinema per la manutenzione. Indimenticabili per sempre saranno gli ungheresi che arrivarono a sostituire i sedili delle sale e in particolare uno, geniale nel volermi scroccare i soldi per i caffè ma gentilissimo a regalarmi una bottiglia di vino quando se ne andarono.
Ed è anche per questo che ho amato follemente “Nelle isole estreme” di Amy Liptrot (Guanda, traduzione di Stefania De Franco), perché arriva in maniera ferocemente semplice sulle cose essenziali: vita, morte, sopravvivenza, rinascita, natura incontaminata, durissima e insieme fragile. Prima di leggerlo ero insieme affascinato e prevenuto. Affascinato perché fra i tanti sogni che ho sin da adolescente, uno è quello di visitare le Orcadi e le Shetland e perché adoro le isole, tantissimo. Prevenuto perché temevo di leggere l'ennesimo romanzo autobiografico di una persona che rinasce, che ce la fa, che supera i momenti bui e si mettere sulla giusta carreggiata. E invece, salvo alcuni passaggi non totalmente convincenti e forse anche ripetitivi, mi sono trovato di fronte a un libro a cuore aperto che racconta la propria storia, quella di una donna che nasce su un'isola delle Orcadi, Mainland, dove vivere non è da tutti, con un padre che soffre di disturbo bipolare e la madre che diventa una cristiana rinata. Una donna che sin da giovane, seppur felice di vivere su quell'isola, conosce gli angoli bui della mente e vuole superare tutti i limiti, vuole vivere l'ebbrezza dell'infinito, degli incontri artistici, delle esperienze pulsanti e che si trasferisce a Londra per brindare alla vita e finendo per uscire tutte le sere e ubriacarsi e frequentare club e sperimentare esperienze di ogni genere, per esplodere in uno dei luoghi più cool sulla terra. Ma la vita londinese s'inabissa nell'alcolismo e Amy diventa un fantasma che esce da una sbronza dietro l'altra, che nemmeno si ricorda cos'ha fatto e con chi è stata la sera prima, che cambia casa alla velocità della luce e che nei bicchieri e nelle bottiglie svuotati uno dietro l'altro vive, si perde, si annulla. Il risveglio è tragico e la destinazione è la riabilitazione, durissima, con l'alcool che ti gira sempre per la testa e che sarà per sempre parte di te con le sue cicatrici. Ed allora Amy decide di tornare a casa, di respirare l'aria di quelle isole, di ricongiursi al ritmo del vento, agli isolanti, ai contadini, alle case, alle maree, all'acqua fredda del mare del nord, ai precipizi, alle camminate, alle leggende, alle tragedie, alla pioggia continua, agli animali a rischio d'estinzione. E ogni giorno senza bere si trasforma in un nuovo sguardo sul mondo, ogni notte nell'erba a riconoscere i suoni di uccelli dimenticati significa riprendersi la propria vita, la propria storia, il proprio nome, le proprie sensazioni.
È un romanzo fatto di paesaggi assordanti nella loro bellezza e Amy Liptrop, donna fragile e scrittrice di luminoso talente, si fa interprete coraggiosa di una natura poetica e violenta tanto da diventare lei stessa un'isola delle Orcadi.
Un passaggio:
“Il venerdì e il sabato sera, a casa, fumavo inquieta alla finestra ascoltando i rumori del pub di sotto e chiedendomi se essere sobria riservasse solo quello. Avevo l'impressione di essermi preparata per qualcosa, ma non sapevo cosa. Ero in forma, in salute, pulita e di nuovo solo a casa per l'interno fine settimana, troppo spaventata per uscire. Se il futuro era quello, non lo volevo.
L'uscita dalla terapia non era la fine, bensì l'inizio. Essere sobri è un conto – l'avevo fatto centinaia di volte -, restare sobri è una sfida quotidiana, piena di momenti in cui tutto filava liscio e io ero certa di aver fatto la cosa giusta, altri in cui tutto era terribilmente difficile.
La distanza dalla mia famiglia, a oltre mille chilometri, cominciava a pesarmi, mentre quando bevevo non m'importava più di tanto. Parlavo spesso con i miei. A papà serviva una mano alla fattoria e la mamma m'invitava ad andare a trovarla. Pur essendo quasi inverno, respirare l'aria dell'isola per un breve periodo, in attesa di trovare lavoro, poteva giovarmi per recuperare forze e appetito.
Londra non era più la stessa. Nella mia vecchia vita ero un'estranea insoddisfatta. Alle Orcadi, però, papà aveva ricevuto le visite di periti e imprenditori e girava voce di soldi in arrivo. Se la fattoria fosse stata venduta, cosa mi sarebbe rimasto? Cosa mi aspettava? Che senso aveva salvarmi?
Escogitai un piano. Concordavo con la mamma che un po' più di spazio mi avrebbe fatto bene, eppure una parte di me, quella dipendente, aveva altri progetti. Tornare alle Orcadi sarebbe stato un teste. Se dopo un anno senza bere non avessi ancora trovato un lavoro decente, e mi fossi sentita ancora frustrata, avrei cercato un impiego anonimo, magari come addetta alle pulizie, mi sarei trasferita nell'ennesima stanza in affitto, mi sarei isolata e avrei ripreso a bere. Arrendersi sarebbe stato stupendo.” (pp. 85-86)