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lunedì 30 luglio 2018

"Le lambeau", Philippe Lançon (Gallimard)


Come sa bene chi passa da tempo da queste parti, il vigliacco attentato ai danni di Charlie Hebdo mi sconvolse e ha lasciato dentro di me una ferita profonda che continua a piangere e sanguinare. Tanto dolore, senso di inadeguatezza a mille ma anche rabbia e voglia di non scomparire, di non darsi per vinti. 

Considero Charlie Hebdo, letto nel mio timidissimo francese, un faro, un amico, un insegnante, una nave di libertà. Tutti si dicevano Charlie in quei giorni e poi via coi distinguo, anche legittimi (per non dire chi è saltato, per motivi puramente politici, sul carro da vigliacco e sfruttatore della tragedia) e che hanno rimesso un po' di chiarezza in giro, così almeno ognuno se ne è andato per la propria strada. 

Nello scorso aprile in Francia è uscito per Gallimard "Le lambeau", scritto da Philippe Lançon che è sopravvissuto miracolosamente a quel vile attentato e che racconta di un passaggio da una vita all'altra, da una condizione all'altra. Un libro catartico, hanno scritto. Io non potrò mai scrivere due righe su questo libro perché mi viene già il magone al pensiero che fra pochi giorni arriverà fra le mie mani ms su La domenica del Sole 24 ore è uscito un articolo di Filippo D'Angelo: "RIVIVERE DOPO «CHARLIE HEBDO»"che vi consiglio di leggere. Nelle ultime righe dell'articolo si parla anche di uno degli autori e intellettuali contemporanei che stimo maggiormente e al quale ho avuto l'onore di stringere la mano tanti anni fa a Locarno: Michel Houellebecq. 
Avevo perso gran parte della voglia di scrivere nel periodo pre-attentato e il buono che mi porto dietro di questa tragedia è di avermi restituito il coraggio di continuare a scrivere quel romanzo che sto terminando in questi giorni. 
Sto scrivendo anche per loro, per le vittime e i feriti (della redazione e i poliziotti) e per Michel, perché tutti loro mi hanno dato tanto ma tanto davvero in questi anni. 



venerdì 27 luglio 2018

L'orrore che provo per Marcello Foa

Una piccola incursione.
Ma voi non avete idea dell'orrore e dello schifo che provo per Marcello Foa.
Ma veramente schifo per tutti i fili che sono stati tirati in questi mesi e nei quali sono finito anche io per troppa stupidaggine.
E tutto questo dopo giorni di incenso per Sergio Marchionne.
Quante lacrime del cazzo.
Piangiamo tutti a comando.
Le idee di Marchionne e Foa vanno a braccetto, anche se in tanti diranno il contrario.
E lo dico perché lavoro e conosco il Ticino.
Poi della Rai non me frega niente ma grillini e leghisti dimostrano quotidianamente tutta la loro schifezza e dalla presunta opposizione e dalle raccolte firme e appelli mi tengo comunque volentieri alla larga.
Per non dimenticare i crocifissi che sventolano i leghisti per riassaporare il consenso ipnotico delle crociate.
(E chissenefrega poi di Famiglia Cristiana e dei cattolici leccapiedi da sempre di tutti i colori...che mi stiano lontani...)

Fine della trasmissione.

Ah, dimenticavo, ho saputo che il tipo che si chiama Foa annuncia sempre querele e robe del genere.

Oggi valeva la pena riaprire il blog per i miei sfoghi.



"MARCELLO FOA PRESIDENTE RAI, COMINCIATE A PIANGERE" 





Oggi

mercoledì 25 luglio 2018

"Le sere" di Gerard Reve (Iperborea), un capolavoro


Tantissimi anni fa una donna che lavorava nell'ambiente editoriale mi disse che sarei impazzito per i romanzi di un controverso scrittore olandese che si chiamava Gerard Reve e in particolare per "De avonden" perché il protagonista somigliava molto a me (e dopo averlo letto credo che avesse ragione ma quasi me ne vergogno perché il protagonista voce narrante potrà risultare respingente/ripugnanti per molti lettori) ma poi aggiunse che quel romanzo, pubblicato nel 1946, era un vero e proprio capolavoro misconosciuto della letteratura e che era un peccato che non lo avessero ancora tradotto. 

Le credetti sulla parola e poi me ne dimenticai.

Poi quel romanzo l'ho acquistato, "Le sere" (Iperborea, traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari),  e finalmente, dopo tanto cercare, ho trovato quella "cosa" che non riuscivo a trovare. Utilizzo fumosamente il termine "cosa" per definire un romanzo che non è solo lettura/letteratura o un ottimo libro ma che quel romanzo esperienza fisica/intellettuale/totalizzante che annienta completamente, spazza via, tutto quello che ho letto nei mesi precedenti, di bello o di brutto, o che credevo fosse memorabile.

C'è qualcosa di indescrivibile in questo genere di esperienze che sono simili per me proprio a bere acqua, mangiare, defecare, pisciare, scopare, camminare, dormire, pensare, correre, nuotare.

Dopo averlo concluso mi sono messo davanti al lago e in acqua c'era uno stronzo di turista del cazzo che due giorni prima, cosi' per caso o perché la gente vede in me un coglione da tormentare, mi aveva rotto i coglioni in dialetto romano raccontandomi della sua fidanzata, della superiorità culturale italiana e di quanto si mangia bene nelle trattorie italiane e di quanto gli svizzeri fanno schifo e avrei voluto dirgli di tornarsene a casa nella sua amata Italia e cospargersi il corpo di una cacio e pepe e morirci sotto soffocato e invece ero rimasto in silenzio, incapace di muovermi, di alzarmi e andarmene e lui parlava e parlava e teneva una copia di Repubblica fra le mani e mi parlava degli ignoranti e dei razzisti e parlava e parlava e io guardavo il lago e tacevo e lui non la smetteva mai di parlare e io guardavo il lago e lui non capiva di essere uno stronzo di merda che rompeva i coglioni a una persona che si era dimostrata educata dandogli due indicazioni e quando se ne è andato sono rimasto paralizzato.

Sulle ginocchia avevo "Le sere" e a una cinquantina di metri da riva adesso lui stava cercando di imparare a usare una tavola da surf e la fidanzata gli scattava foto. Li avevo visti allontanarsi  dalla riva pregando che non mi riconoscessero.

Prima di andarmene ho pregato che potessero rimanerci secchi tutti e due e sulla strada di casa avevo gli occhi gonfi di lacrime e fra le mani stringevo il libro con tutto il dolore, la noia e il vuoto che ho nel cuore. 

In quel momento mi sono sentito totalmente Frits van Egters.


Andrea Consonni, Lugano, 25 luglio 2018

venerdì 20 luglio 2018

Qualcosina su "Corpus Christi" di Bret Anthony Johnston (Einaudi)



L'errore era suo, e anche su questo non avevo voce in capitolo. Se lo sarebbe portato addosso, quell'errore, e io l'avrei seguito in attesa di un'altra possibilità per sentirmi vicino a lui. Ma lui non avrebbe mai cambiato parere. L'errore sarebbe rimasto con lui per il resto della sua vita e anche dopo la sua morte nessun senso di complicità avrebbe attecchito. Avrei cercato di ritrovare, di afferrare quei talenti di mio padre che su di me non avevano effetto, ma i miei tentativi erano sempre destinati a fallire, come se mi mancassero gli attrezzi giusti, come se le mie mani troppo piccole e goffe cercassero di afferrare solo fumo.” (Due bugiardi, pag. 171)





 “Ricordami così” (Einaudi, traduzione di Federica Aceto) è stato come varcare la soglia di un'ospedale dell'anima e poi camminare ed entrare da reparti e stanze che portano il nome di: morte, tradimento, cancro, chemioterapia, bugiardi, abbandono, serpenti, depressione, incidenti automobilisti, uragano Alicia, ictus, morfina, bambini morti, Karankawa, psichiatria, medicine e da ogni porta aperta, ogni lettino, ogni sedia, ogni finestra, ogni ospite, paziente ricevevo spiragli di luce e speranza che poi perdevo e riacquistavo ogni volta che tornavo su e giù per i corridoi. E i corridoi degli ospedali, e li conosco bene, mi hanno sempre ricordato l'atto del respirare. Prendere fiato e poi perderlo. E intanto camminare e camminare. Ho disegnato percorsi sul mio corpo camminando per i corridoi degli ospedali.

Leggere questi racconti, tutti ambientati a Corpus Christi (Texas) e dintorni, potrebbe risultare faticoso a molti lettori. Quando ho acquistato questo libro (insieme a questo) il commesso mi ha detto (e sono ancora qui a chiedermi per quale motivo abbia aperto bocca) che gli sembravano strane letture estive e infatti qualcuno potrebbe chiedersi perché leggere di tutto questo dolore, perché immergersi con tutto se stesso dentro al dolore anche quando fuori splende il sole e ci sono un sacco di storie in giro più consolanti, educativi, speranzose. Come se d'estate il dolore scomparisse. Come se non morisse anche d'estate. Come se l'estate fosse stupidamente un atto di sospensione dall'esistenza.

Perchè l'ho letto e poi ancora riletto in alcuni passaggi? Perché lo stile di Johnston, che segue le orme di Raymond Carver (nel primo racconto "Gente che cammina sull'acqua" è impossibile non ricordare  lo sconvolgente e famoso racconto "Una cosa piccola ma buona"), Andre Dubus, Robert Stone (scrittore troppo spesso dimenticato) e ricorda quella di Paolo Mascheri (e lo scrivo non per amicizia ma perché c'è un sottile filo umorale, di tensione vitale, esistenziale, doloroso, che unisce questi due scrittori), è di una bellezza sconvolgente, molto muscolare e insieme delicato, ma mai e poi mai banale, di grande delicatezza. È come se l'autore bussasse alle spalle del lettore e poi lo baciasse e poi lo prendesse per mano e poi gli accarezzasse i capelli mentre gli racconta di come son morti un padre o una madre.

Le pagine di questi racconti mi si sono incollate alla pelle perché l'autore è riuscito nella difficile operazione chirurgica/stilistica di cogliere lo spaesamento causato dal sopraggiungere di una malattia che non dà scampo o quello di una fine di una relazione o della morte di un figlio o del ricovero della compagna in un ospedale psichiatrico dopo un aborto e di tutte le conseguenze che piovono dal soffitto di casa come una cascata e le cui conseguenze possono essere di vario grado: la delicata felicità che scaturisce dall'incontro fra due persone segnate da un dolore inenarrabile (il figlio morto per meningite), le riflessioni di un figlio che è stato spettatore del crimine commesso da suo padre per proteggere e salvare la famiglia, i dubbi di un marito prima di parlare con la moglie ricoverata in un ospedale psichiatrico. È il come e non il cosa che colpisce in questi racconti. Perché se penso alla mia esperienza personale, quello per esempio legato alla malattia di mia madre non ricordo tanto i singoli episodi strettamente legati al suo calvario (operazioni, ricoveri, chemioterapia) ma il contorno: il suono della sua voce, il come si pettinava i capelli stesa a letto con una flebo nel braccio, i ricordi che riaffioravano e non erano sempre combacianti coi miei, le sue raccomandazioni sul futuro, la sua ira ancora più devastante, la sua ansia, le mie difficoltà nel rimanere seduto accanto a lei senza godere di un totale isolamento vista la presenza di un'altra paziente terminale.

Durante un lutto, una malattia, una tragedia, un abbandono si verifica una svolta totalizzante dell'esistenza: le abitudini vengono stravolte o si fossilizzano definitivamente, emergono parole che non si sono mai pronunciate, si comincia ad analizzare tutto, ma proprio tutto del rapporto che ci lega a quella persona. Si verifica una frattura definitiva che può anche non essere immediata ma che comincia a scardinare le certezze, a mettere in dubbio ogni verità, certezza.

L'autore in questi racconti descrive esattamente il colore di queste sensazioni, il turbinio delle emozioni, la voglia di riscatto, il dolore che non si sa come trattenere o manifestare, i tentativi di riavvicinamento, il peso di nuove parole che ci si gonfiano in gola, il futuro inafferrabile che ci si prospetta dentro a una flebo o una piscina di un motel.

Ci sono dei racconti che mi hanno sconvolto e commosso e sono tutto il trittico che racconta di Lee Minnie ("Io lo vedo e tu no", "La vedova", "Comprami la pioggia"): lui, figlio che non sa che cosa fare della propria vita, e su Minnie, sua madre e vedova, malata di cancro e destinata alla morte. Tre racconti che descrivono in maniera lancinante il calvario di una donna destinata alla morte e tutto ciò che una malattia vomita nella vita di una persona: il senso di impotenza, la remissione, i ricordi che riaffiorano, il legame, difficile e controverso, che lega madre e figlio, le aspettative di una madre, i dubbi di un figlio che ha mollato tutto, perché non ha niente, per accudire la madre, la possibilità di un cambiamento quando la madre morirà.
Sono tre racconti che mi hanno messo i  brividi addosso.
Quasi insostenibile il dolore che mi ha preso alla gola.

E poi c'è quel racconto, "Due bugiardi", con un figlio che ha un padre che decide di bruciare la propria casa per impedire che la propria famiglia venga sommersa dai debiti e un altro racconto, "In alto mare", ancora che vede sempre protagonista un figlio che vede il padre sfogarsi, picchiare, in un disperato tentativo di difendere la  propria dignità e l'onore della famiglia che sta per affondare.

Quando ho terminato questa raccolta di racconti ho pianto copiosamente e ho bevuto un paio di birre, in fretta, quasi vergognandomi di me stesso.

Mi sono sentito raccontato e messo a nudo totalmente.

Non succede spesso.

Non aggiungo altro, ho già scritto troppo, e mi sembra di essere uno dei protagonisti di questo libro.

"Lee non riusciva a rispondere. Lo scatto dell'accendino, l'odore del fumo che si spandeva nell'aria. Lee sentì che sua madre lo stava guardando, ma chiuse gli occhi e rimase in silenzio. Mentre lei aspettava di sentire la sua voce familiare e rassicurante, lui si girò sull'altro fianco, e fece finta di dormire." (Comprami la pioggia, pag. 254)




Andrea Consonni, Lugano, 20 luglio 2018

lunedì 16 luglio 2018

Variazioni su "Barba intrisa di sangue" di Daniel Galera (SUR)


Da quando son nato mi hanno spesso scambiato per mio cugino che di anni ne ha quasi più di venti di me. Lui l'hanno scambiato sin dalla sua infanzia per il nostro nonno materno che nessuno dei due ha mai conosciuto. E io e lui siamo poi i sosia del nostro bisnonno. Paolino ogni tanto m'hanno chiamato anche a me, come mio nonno e mio cugino Paolo. Oppure Mungusel, che è un termine di origine oscura e che ricorda lontanamente un luogo di provenienza (un paesino vicino) ma che più prettamente va a definire, razionalizzare (sempre in una forma di divagazione continua fra parole e visi, mani e tombe) una condizione esistenziale, un modo d'essere, per non dire un'identificazione quasi genetica, somatica, etnica, razziale, psichiatrica, trovate la soluzione che volete, una parte della mia famiglia. Degli strani, dei folli, dei matti, dei depressi, degli spostati, dei dediti alla fuga, dei cultori dell'abbandono e del fallimento. Io e mio cugino abbiamo molto in comune anche se conduciamo vite completamente diverse, abbiamo ideali diversi e litighiamo quasi sempre quando ci vediamo, ma tutti e due siamo perennemente insoddisfatti, attorcigliati ai nostri fallimenti quotidiani, innamorati del sesso femminile, insofferenti agli ordini e alle dinamiche di squadra.
Ma è al mio bisnonno materno che mia madre e il resto dei miei parenti mi hanno detto che somiglio. 
Lui era ombroso, astioso, depresso, malinconico, propenso a scatti d'ira, furioso. In tanti gli stavano alla larga così come oggi stanno alla larga da me. Rischiavi la pelle se gli rompevi i coglioni. Eppure potevi chiedergli qualunque cosa  e lui te l'avrebbe data. Non aveva nessun interesse per i soldi così i miei nonni materni e mia madre. Una volta quasi uccise con un'accetta degli zingari che erano entrati nel cortile di casa per rubare vestiti stesi ad asciugare. Mio nonno disse che quei ladri stavano rubando a qualcuno che nemmeno sapeva come fare ad arrivare alla fine della giornata e che rubassero ai ricchi del paese o ai vicini contadini coi soldi nascosti nei campi e agli operai amici del sindacato. E si attirò le ire di tutti. In paese vivono ancora oggi degli anziani che  lo ricordano con un misto di ammirazione e paura perché viveva a modo suo e morì a modo suo.


-mio nonno materno, soldato della Prima Guerra Mondiale-

Perché questa premessa se sto parlando di un romanzo? Mi piace prendere tempo oggi, quando penso ai libri a me viene voglia di prendermi tanto tempo ed è anche per questo che mi piacciono i libri lunghissimi. Quelli brevi se concentrano in poche pagine la grandezza della letteratura ( racconti sono poi forse la forma della mia lingua). 
Non ho nessuno a cui rendere conto. 
Se vi va di leggere questo pezzo leggetelo altrimenti andate altrove. 

E comunque lo faccio perché il romanzo del brasiliano Daniel Galera “Barba intrisa di sangue” (SUR, traduzione di Patrizia Di Malta) ruota tutto intorno al legame di sangue, intimo, sentimentale, genetico, astrale, galattico che si fa ripetizione di carattere, azioni, scelte, istinti, visioni della vita, futuro, presente, passato, morte, rinascita che passa di generazione in generazione, da padre in figlio a nipote e quando ti guardi allo specchio vedi te e chi ti ha preceduto e sembra che tu stia ripercorrendo lo stesso cammino di chi ti ha preceduto e ti senti quasi svenire ed è anche per questo che rimasi senza parole quando vidi per la prima volta “Inseparabili” di David Cronenberg con il fratello gemello che si suicida per raggiungere nel destino il fratello morto. Sei te stesso, la tua proiezione, il tuo doppio che si moltiplica lungo tutto un  rame familiare ed è ancora più straziante quando sembra che le vite si stia differenziando e accade quell'evento che riporta tutto al suo naturale finale. A un destino che è stato scritto in una maniera non tanto semplice. 


Mia madre mi ha sempre poco rotto le scatole quando le manifestavo la mia voglia di stare lontano dalla gente o ero in una condizione di perenne distrazione perché evitare il contatto umano, isolarsi, andarsene era sempre stata una caratteristica della nostra famiglia. La riconosceva nelle mie parole, nella mia tendenza all'isolamento, nella mia insoddisfazione continua, nel mio modo di fumare. D'altro canto portava il nome del fratello a sedici anni. 

Ma Galera in questa relazione fra passato, carne, sangue, falsità innesta una variazione pregevole e ancora più affascinante e suggestiva: il protagonista, uomo di sport, grande nuotatore, insegnante di nuoto e allenatore, soffre di una rara malattia, la Prosopagnosia che gli impedisce di ricordare i volti delle persone, compreso il proprio, e per farlo necessita di un continuo processo di memorizzazioni di particolari laterali, una voglia, un modo di camminare, un profumo, una voce perchè tutto scompare dalla memoria tranne il fatto che tutti gli dicono che somiglia al nonno scomparso, forse ucciso in un villaggio per una colpa non ben definita. Si fa crescere la barba e qualcuno vede in lui somiglianze che lui non può cogliere nell'immediato. E cosa siamo senza un viso, un volto, un ricordo? Forse siamo più liberi o forse viviamo costantemente in uno stato di assenza. 

“Barba intrisa di sangue” è un romanzo dai contorni noir e metafisici con protagonista un ragazzo che accettata come ineluttabile la scelta del padre di suicidarsi e in compagnia della inseparabile cagnetta Beta, per una vita fedele scudiera del padre, abbandona tutto, la città, il lavoro, le sicurezze per trasferirsi a Garopaba, una cittadina di pescatori aggrappata allo splendido litorale meridionale brasiliano, dove un tempo si cacciavano anche le balene, e cercare di trovare se stesso e scoprire cosa sia accaduto realmente al nonno. Il protagonista riscopre se stesso in lunghe giornate trascorse in mare a nuotare, a camminare, correre, parlando con pescatori, intrecciando nuove amicizie, innamorandosi e intanto riconosciuto come il nipote di Gauderio cerca di rompere la cappa di silenzio che circonda la tragica fine del nonno, la ritrosia dei cittadini che non accettano i suoi tentativi di investigazione. Vuole conoscere la verità, una verità che sarà dirompente e distruttiva quando la troverà, perché sarà una verità che si farà carne su se stesso, che si è costruita giorno dopo giorno sul suo volto, sulle sue scelte.

“Barba intrisa di sangue” è un romanzo da vivere con lentezza, facendosi ammaliare da lunghissime descrizioni naturalistiche (e da inserti metanarrativi calibrati perfettamente) che creano un'atmosfera straordinaria e che non è solo sfondo della storia ma essenza stessa del romanzo, quasi una cappa oppiacea nella quale si scivola dolcemente e insieme nervosamente mentre si legge, affrontando discussioni buddhiste sull'annullamento di sè e riflessioni filosofiche sul destino ineluttabile che attende l'essere umano e affrontando insieme all'autore questo processo di svuotamento continuo, arrotolandosi in scoppi di violenza, di eccessi, scivolando nella storia del Brasile, nella corruzione, nel passato fatto di colonizzazione e schiavismo e di un oggi fatto di un turismo che annulla tutte le differenze.

L'ho letto sul balcone mentre una squadra di operai riparava a colpi di martello pneumatico due appartamenti del palazzo vicino. Ho sentito le urla degli operai solo quando ho chiuso il romanzo.
Un effetto ipnotico.
Calmante.
Che annulla tutto quello che ti circonda.
Come quando ti droghi.
Come quando leggo.
In completa solitudine.
Per ore e ore, senza dover rendere conto a nessuno del mio tempo, del perché faccio le cose, del cosa ci faccio tutto un giorno su un balcone a leggere.


sabato 14 luglio 2018

Qualcosina su "La guerra dei Murazzi" di Enrico Remmert (Marsilio Editori)



"Una cosa che mi ricordo bene delle settimane successive è che facevo sempre lo stesso sogno, un sogno in cui io ero da qualche parte - il luogo cambiava - ma alla fine arrivavano delle persone, mi inseguivano e mi catturavano. Non sapevo mai se dopo che mi avevano catturato mi facevano del male o mi violentavano, non arrivavo mai a quel punto, mi svegliavo prima." (pag. 53)


Quando penso a Enrico Remmert io ritorno ai miei 18 anni e al pomeriggio che  lessi tutto d'un fiato il suo esordio "Rossenotti" (Marsilio Editori). Ero quando cercavo una voce italiana che raccontasse dei miei giorni, delle mie ansie, delle città che conoscevo. Lo lessi per puro caso e non ricordo nemmeno più chi me lo prestò perché è sempre stato uno di quei libri che avrei voluto acquistare e  poi non l'ho mai fatto per anni, forse anche per non uscire deluso da una rilettura o forse per non sentirmi ancora più vecchio di come già non mi sento tutti i giorni, ma poi l'ho acquistato, usato a una bancarella e l'ho letto in maniera più adulta e scoprendo passaggi che mi ero completamente dimenticato e ho continuato a leggere i libri di Enrico Remmert, anche quelli con Luca Ragagnin (molto bello "Elogio della sbronza consapevole"), senza mai riuscire a capire come non riesca a ottenere il giusto riconoscimento.

Che poi a cosa serva il riconoscimento non l'ho mai capito....ma lasciamo stare.

Leggere i suoi libri significa sempre tornare a belle storie scritte in maniera perfetta dallo stile dotato di una pulizia rara, apparentemente semplice ma provate voi a scrivere così, ed è anche per questo che non ho avuto dubbi ad acquistare "La guerra dei Murazzi" (Marsilio Editori), la sua ultima prova che contiene quattro novelle, due lunghe e due brevi.

Devo confessare che a me già la parola Murazzi mi fa venire i brividi perché sul Po ci sono stato a diciannove anni, arrivavo da un paesino di quattromila abitanti e mi ritrovai praticamente senza parole. Non so nemmeno come feci a tornare a casa e nemmeno ricordo con chi ci andai e perché ci andai. Forse una ragazza con i capelli lunghissimi e neri. Forse una bionda, non lo so. Per tre giorni rimasi con lo stomaco ribaltato e le mani che mi si muovevano da sole. Poi ci sono tornato qualche anno fa e ho trovato tutto chiuso, sbarrato, la desolazione. Dicono che stiano rinascendo i Murazzi ma è da una vita che non torno a Torino e non so nemmeno se riuscirei a stare in mezzo a così tante persone come quelle che incontrai quella sera.

Tutti e quattro i racconti sono scritti in prima persona e ruotano, con diverse variazioni e sfumature, intorno al tema dello spaesamento e dell'ossessione, di un qualcosa che finisce (un ideale, un amore, una vita, uno spezzone di vita), di fughe, di speranze tramortite, d'immigrazione e razzismo e di percezione dell'immigrazione, di amori ed evaporazioni, del non sapere che posto abbiamo nel mondo e cosa sia questo mondo che ci circonda e dove ci è stato imposto di vivere.

Nel primo che dà il titolo alla raccolta la voce narrante, fisicamente percepibile, è quella di una giovane cameriera dei Murazzi e fa vivere al lettore l'atmosfera magica di quegli anni, le risse fra clienti e spacciatori e immigrati e hooligans inglesi, le serate alcoliche, i buttafuori, le morti, le ferite, le chiacchierate e gli scazzi con una coinquilina che ti accusa di razzismo, l'amore per un albanese arrivato in Italia nel '91 con uno di quei barconi stracarichi di uomini e donne e bambini in cerca di libertà e cibo e che si è rifatto una vita e Remmert riesce a dar voce e carne all'incontro/scontro fra residenti e immigrati, così attuale in questi giorni, e alla fine di questo mondo, alla conclusione di una storia d'amore, solitudine e riscatto.
Il secondo racconto "Otto progetti per la costruzione di una nuvola" è invece ambientato nel lido di Venezia durante i Mondiali di Calcio del 2002 ed forse anche il racconto meno convincente dei quattro seppur rie a restituire la magia degli strani incontri, in questo caso fra un italiano e un parrucchiere artista giapponese che sembra prevedere il futuro.
Il terzo invece "Havana 3 a.m." è ambientato a Cuba nel 1994 con tre ragazzi italiani che sbarcano nell'isola caraibica per scoprire le possibilità di investimento nel settore turistico e si fa narrazione picaresca commovente, generazionale e appassionante delle contraddizioni del regime castrista, restituendo però tutta la magia, i colori della vita cubana e i brividi degli incontri fra ragazzi e dell'amore che può sbocciare imprevisto.
E poi l'ultimo, "Baal", un racconto toccante con un ragazzo in fuga che finisce a lavorare in un allevamento di pittbull (atmosfera simile a quella del romanzo "Hool") e che mi ha fatto respirare tutta la voglia di scomparire di questo giovane, di rifarsi una vita ma in un contesto di degrado, di violenza latente, di scontri clandestini, di serbi disposti a morire per dei cani e di un cane feroce e assassino che si chiama Baal, che vuole bene solo al suo padre e che è fra di noi.

"La guerra dei Murazzi" è una lettura che scorre via appassionante. Commuove e diverte. Colpisce al cuore con quella semplicità che hanno solo i bravi scrittori.

Da Remmert mi aspetto adesso un romanzo di quelli memorabili, ma davvero memorabili.



Andrea Consonni, 14 luglio 2018, W la Rivoluzione Francese

mercoledì 11 luglio 2018

Intervista a Manfredi/Novanta: Shoegaze Shoegaze Shoegaze


-lo shoegaze in persona-

Ciao Manfredi, come te sono innamorato follemente dello shoegaze e su questo genere musicale hai deciso di creare un blog monotematico: https://shoegazeblog.com 
Ti va di raccontarci come è nato il tuo amore per lo shoegaze e della decisione di aprire un blog shoegaze? Per me lo shoegaze è la stanza più intima del mio cuore. La scintilla è stata Just for a Day degli Slowdive e pensa che mi gira ancora la testa quando scorgo un immagine di Rachel Goswell. Il suono degli Slowdive e dei My Bloody Valentine mi aiutano a creare l'atmosfera giusta per scrivere.


Era un’idea che avevo da tempo, quella di aprire un blog shoegaze. Adoro questo genere musicale, penso che abbia ancora molto da dire e ritengo che sia molto meno monocorde di quanto si pensi. In questi ultimi anni c’è stato un risveglio dello shoegaze e del dream pop, possiamo parlare di comunità: per tanti anni i re sono stati in esilio e allora tante band hanno cercato di riempire un vuoto. In questo modo è nata praticamente dal nulla una scena che ha creato le condizioni favorevoli per il grande ritorno degli Slowdive e dei My Bloody Valentine, ma soprattutto ha fatto in modo che lo shoegaze abbia un futuro tra le nuove generazioni. Perché amo questa musica? Perché è il punk degli introversi.



Torniamo e indietro e facciamo un po' di scuola shoegaze: come e dove è nato lo shoegaze e quali sono le sue caratteristiche principali? Quali sono i principali gruppi storici dello shoegaze e a tuo parere gli album più significativi e magari anche quelli meno conosciuti? E in cosa si differenzia, musicalmente/per approccio, da altri generi come potrebbero essere l'alternative, il noise o la musica rock o anche il brit rock? 



Sulla nascita dello shoegaze molti hanno una propria idea e si rischia di essere parziali o poco precisi, perché in fondo questo è un genere dai contorni meno chiari di quanto ci si possa aspettare. Diciamo che negli anni Ottanta nascono i primi segnali, mentre nella prima metà degli anni Novanta c’è la definitiva codificazione attraverso i lavori di band che diventeranno i punti di riferimento per i gruppi successivi. La trinità è composta da My Bloody Valentine, Slowdive e Ride, che con i loro dischi “Loveless”, “Souvlaki” e “Nowhere” hanno dettato le tre traiettorie principali del genere: il rumore, il sogno e quello che sta in mezzo. Altri album da segnalare? I primi che mi vengono in mente sono “Delaware” dei Drop Nineteens, “Afrodisiac” dei Veldt, “Jesu” degli Jesu, “Lesser matters” dei Radio Dept., “Distressor” degli Whirr, “Radiogaze” dei Blankenberge. Le differenze col noise e l’alternative in generale sono da trovare in una più profonda ricerca melodica: il rumorismo di una certa versione dello shoegaze non è altro che una estremizzazione sonora cucita addosso a canzoni molto orecchiabili. Qualche punto di contatto col brit rock esiste soprattutto nel filone capitanato dai Ride, che infatti negli anni si sono un po’ allontanati da certe formule tipicamente shoegaze.

Che importanza hanno i testi nella musica shoegaze? Qualcuno mi ha detto che li trova scadenti e superficiali. 

I testi della musica shoegaze scontano il pregiudizio di essere dei meri accessori alla musica, ma se facciamo attenzione alle parole molto spesso si trovano dei capolavori. Dalla glossolalia dei Cocteau Twins agli Slowdive, passando per i sottovalutati My Bloody Valentine, c’è parecchia roba buona. Uno dei miei testi preferiti è brevissimo, praticamente una frase sola: “I killed all the rainbows and the species”, in “This bright flash” di M83.

Delle reunion di gruppi storici come i The Jesus and Mary Chain, i Ride, gli Slowdive cosa ne pensi? Come giudichi musicalmente i loro ritorni? 


Ne penso benissimo, perché questi gruppi meritavano una seconda opportunità dopo essere stati snobbati o addirittura dileggiati (Slowdive) nei primi anni. E meritavamo anche noi - che eravamo troppo giovani all’epoca - di poterli vivere in diretta e non soltanto attraverso le testimonianze provenienti dai bei tempi andati.

Come sono i live shoegaze?

È difficile rispondere perché dipende ovviamente dal gruppo. Sono live normali, con zero distanza e molta empatia. Gli Slowdive dal vivo generalmente sono fenomenali: li ho visti live tre volte, due delle quali mi hanno lasciato senza fiato per la perfezione del suono che veniva fuori. Solo una volta mi sono sembrati un po’ sottotono con le chitarre, ma d’altronde può succedere.

Lo shoegaze ha lasciato una bella impronta sulla scena musicale italiana. Me ne sono accorto anche leggendo il tuo blog. Tanti gruppi dalle varie sfumature. Ti va di raccontarci la scena italiana shoegaze? Come si è formata, quale è stata  la sua evoluzione e la condizione attuale. E, ritornando a cos'è lo shoegaze: c'è una sorta di meticciato musicale con la tradizione musicale locale? L'impressione è che i gruppi italiani abbiano destato maggiore interesse all'estero piuttosto che nella  nostra penisola. È un'impressione sbagliata o c'è qualcosa di vero?



È vero, lo shoegaze italiano ha una notevole considerazione più all’estero che in Italia, basti pensare a gruppi come Be Forest o Rev Rev Rev che sono dei punti di riferimento a livello internazionale. E proprio all’estero si parla di italogaze, dando una specificità a un genere che era difficile pensare che potesse attecchire in Italia. Lo scorso maggio è uscita una compilation alla quale hanno collaborato sia il mio blog sia il sito Shoegazin’ Your Waves: s’intitola “Chiaroscuro. Italogaze 2018” e raccoglie alcuni dei migliori progetti shoegaze e dream pop italiani. Si scarica gratuitamente sul Bandcamp di Seashell Records e su quello di Vipchoyo Sound Factory: penso che questa raccolta dia una panoramica piuttosto esauriente dello shoegaze italiano, che non segue pedissequamente le regole ma si contamina con altri generi e altre storie. Il meticciato dunque c’è, ma non la tradizione italiana, ammesso che esista una tradizione italiana. 


Quali sono per te i migliori album di shoegaze italiano e le speranze per il futuro? 



Come Novanta, hai realizzato dei dischi bellissimi: quanto devono musicalmente i tuoi album allo shoegaze? E in questo momento cosa sta ascoltanto Manfredi e cosa bolle musicalmente nella tua pentola?



I miei album devono tutto allo shoegaze, al post rock, all’elettronica e in generale alla musica degli anni Novanta. Ho sempre amato le canzoni malinconiche in qualunque forma esse siano e lo shoegaze è malinconia ai massimi livelli! Negli ultimi tempi ho ascoltato molto “Singularity” di Jon Hopkins, “Grid of points” di Grouper, “Negative work” degli E, “Rob a bank” dei Comaneci. Musicalmente bolle qualcosa, sto lavorando a brani nuovi già da parecchio tempo, ma cambio sempre gli arrangiamenti e non sono ancora soddisfatto del risultato. 


Con il tuo blog, la tua musica e le tue recensioni conoscerai la temperatura della scena indie italiana?L'impressione, da esterno, è che dopo un periodo di breve euforia la musica “indie” stia tornando a inabissarsi e che bisogna ringraziare internet per poter conoscere e ascoltare musica che piace a persone come noi. Sembra che stia trionfando una sorta di “indiepopraprockmelenso” sempre più radiofonico, di facile ascolto e fruizione.

C’è una tendenza a una maggiore semplificazione dei suoni e, nel contempo, si va verso una più ampia diffusione di queste canzoni a livello mainstream. In generale, la sensazione che ho è che alcuni cerchino di “esserci”, costi quel che costi, però ci sono robe molto interessanti. Forse ci si sta chiudendo un po’ troppo all’interno di un immaginario (sottolineo immaginario, non mi riferisco alla lingua) esclusivamente italiano, bisognerebbe pensare anche più in grande. In generale, non penso che la situazione della musica di nicchia sia tanto diversa rispetto a quindici anni fa: era difficile emergere allora, è difficile oggi. Non è cambiato nulla. 

A Milano la scena musicale e i locali come sono messi? 



A Milano la scena musicale vive un momento strano: sembra che i gruppi rock stiano sparendo per far spazio a rap e trap. Ovviamente non è così. Sono tornati gli Albedo con un ep e questa è una buona notizia. Ci sono i già citati Obree, gli In Her Eye (ottimo gruppo shoegaze), i Mystic Morning (anche loro dalle parti dell’indie pop e dello shoegaze), Paolo Saporiti. Ci sono i Majno, giovane band emocore sullo stile dei Fine Before You Came. Insomma, la proposta è sempre molto vasta e interessante. Chi è interessato ad ascoltare buona musica può contare sull’Ohibò, sul Ligera, sul Magnolia, sul Gattò, insomma su tanti locali che continuano a proporre concerti interessanti. Ci sono state molte chiusure, come la storica Salumeria della Musica, ma in generale l’offerta continua a essere ottima. 

Chiudo questa intervista con tre domande: sei di stanza a Milano e con l'aria che tira di questi tempi sembra che la metropoli lombarda, con tutte le sue contraddizioni e ombre, sia diventata una specie di argine a questa ondata, diciamolo pure razzista e ignorante che imperversa in tutto il Paese, cosa ne pensi?

Milano è una città accogliente, bella, vivace, tranquilla. Sconta un po’ lo stereotipo di essere un luogo modaiolo e futile, feste in lista, privé, macchinoni e imbruttiti. Ma Milano è molto di più: è un posto che sa sorprenderti ogni giorno, pieno di cultura, di vita, di relax, di gente serena. E soprattutto è un posto che in qualche modo sta dettando una linea diversa dalla narrazione in voga in questo momento. Anche Palermo sta avendo un ruolo simile. Credo che siano due città da prendere a esempio, al netto ovviamente di criticità che peraltro appartengono a ogni grande centro abitato. 

Cosa stai leggendo? E ci sono libri, film o documentari sullo shoegaze che vorresti consigliare o shoegaze nell'anima?



Ho finito di leggere l’integrale del Commissario Spada, un fumetto anni Settanta. E ho appena cominciato un libro di Noah Hawley, “Prima di cadere”. Come documentari shoegaze consiglio “Beautiful noise”. La terza stagione di Twin Peaks ha una bellissima colonna sonora con diverse gemme dream pop. Film “shoegaze”? Direi uno scontato “Lost in translation”.



In quale dei gruppi shoegaze sogni di suonare un giorno o collaborare?

Sarebbe bello ritrovarmi sul palco con gli Slowdive suonando per un’ora la coda strumentale di “Catch the breeze”. Sognare non costa nulla.



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lunedì 2 luglio 2018

Qualcosina su "La campana non suona per te" di Charles Bukowski (Guanda)


Certe volte mi viene da pensare che se a novant'anni sarò ancora in vita, probabilmente parkinsoniano, relegato in qualche ospizio decadente con catetere e pannolone (ma la speranza è che la morte sopraggiunga prima magari anche con una bella punturina o una pastiglia di cianuro) e avessi un attimo di lucidità mi potrebbe capitare di trovare sul comodino l'ennesimo taccuino, romanzo, bozza, raccolta di poesie di Charles Bukowski perché non c'è anno che non arrivi qualcosa di nuovo scritto dallo straordinario scrittore statunitense, un manoscritto dimenticato in fondo a qualche cassetto, un racconto "assolutamente" imperdibile. Non c'è mai fine o chissà forse, certe volte lo spero, si è quasi giunti alla fine di questo raschiare, rimescolare, riaggiustare, ritradurre, spezzettare, riassemblare. Eppure in quell'unico brillio di coscienza ancora a disposizione vorrei  comunque poter assaggiare nuovamente le parole di questo vecchio sporcaccione che non smette mai di divertirmi, commuovermi, eccitarmi, strapazzarmi, abbracciarmi. Bukowski è un po' come un amico che mi ha aiutato a superare momenti bui, che mi ha fatto sognare donne che mai incontrerò e mi ha permesso di sorridere in momenti neri. Ne ricordo in particolare uno. Estate di vacanze lavorative. Io da solo a casa nel mio paesino deserto. Agosto. Nessuna voglia di uscire, se non per comprare le sigarette, il giornale e il vino. Non avevo nemmeno voglia di leggere, scrivere. Aprivo una bottiglia di vino e ascoltavo i Beatles senza un attimo di pausa. Poi una mattina mia sorella mi chiamò al telefono e mi ricordò di sistemare la stanza prima del loro ritorno. Mentre pulivo le librerie mi cadde fra le mani Storie di ordinaria follia


L'avevo già letto due volte ma sentii che era giunto il momento di rileggerlo  e pagina dopo pagina riacquistai anche solo la voglia di prepararmi una pasta, di uscire in bicicletta, di farmi la barba. Soltanto che quattro giorni dopo sarei tornato al lavoro.

Tornando al libro in questione: “La campana suona per te” (Guanda, traduzione di Simona Viciani) raccoglie i racconti usciti fra il 1948 e il 1985 su varie riviste come Kauri, Congress, Open City, Fling, NOLA Express, L.A Free Press, Hustler, Oui e dentro, fra altri e bassi, ci sono tutti i temi classici di Buk: scopate, bevute, droga, vomito, puttane, papponi, corse di cavalli, tradimenti, pazzi assoluti, sesso, galere, marciapiedi, ubriaconi, divani, Brahms, botte, litigi, urla, Sostakovic, pornografia, doposbronza, scoregge, guerra, tirate pacifiste, satira antiamericana, anticomunismo e soprattutto donne, una più bella dell'altra. 

Ci sono due racconti che ho apprezzato particolarmente: uno è ambientato in un lercissimo negozio a luci rosse frequentato da ogni genere di guardone, pervertito possibile e l'altro descrive il colloquio di lavoro fra un gestore di locale/pappone e un'aspirante prostituta/ballerina. 
Memorabili davvero. 



Questo è un libro che consiglio a tutti gli amanti di Bukowski, anche solo leggendo un raccontino al giorno, e lo consiglio anche a coloro che non hanno mai letto Charles perché potrebbe essere un aperitivo per poi scoprire e affrontare le sue opere migliori oppure anche un modo per evitarlo definitivamente perché questo libro è una sorta di grande riassunto del Charles scrittore e anche uomo (distinguere scrittore e uomo in questo caso è opera ardua), con tutti i motivi che possono portare ad amarlo alla follia oppure a odiarlo, quasi nemmeno considerandolo un vero scrittore.

Da qui in poi ci sono tutta una serie di passaggi che ho estrapolato da questi racconti. 

Son tanti ma intanto che li trascrivevo stavo ascoltando Wagner:

Ognuno ha modi differenti, ognuno ha idee differenti, e sono tutti così sicuri. E anche lei è sicura, quella donna legnosa con occhi folli e capelli grigi, quella donna che sbatte contro le sue stesse pareti, folle di vita e di paura, che non crederà mai fino in fondo che non odiavo lei e tutti i suoi amici che si riunivano due o tre volte a settimana e si complimentavano l'un l'altro per le proprie poesie, esseri solitari che si imbrogliavano a vicenda, e ne portavano i segni ed erano molto entusiasti e sicuri, e loro non crederanno mai che la solitudine e la riservatezza che ho sempre preteso, fossero solo per salvare me stesso, così potevo intuire chi fossero loro e chi fossero in teoria i miei nemici. Eppure era bello essere soli. Entrai in casa e lentamente cominciai a lavare i piatti.” (pag. 12)

Ho incontrato troppi scrittori, artisti, editori, professori, pittori, nessuno spontaneo e sincero o interessante. Erano meglio sulla pagina o sulla tela, e anche se non si può engare che sia una cosa importante, è sempre una scocciatura sedersi di fronte a queste creature e ascoltarle parlare o guardarle in faccia.” (pag. 15)

Mi sentivo bene. Sapevo che a quel punto avevano finito e che io ero libero. Ho pensato alla Quinta Sinfonia di Sostakovic. E mentre camminavo, sentivo che per la prima volta dopo anni il mio cuore era libero. La ghiaia che mi scricchiolava sotto i piedi forniva la miglior danza di tutte. Ancor meglio di tutti i baci e di tutti i balli che Nina avrebbe mai potuto offrirmi." (pag. 55)

Mi sono svegliato in una strana stanza in uno strano letto con una donna strana in una strana città. Ero contro la sua schiena e il mio pene era dentro la sua figa posizione tipo cane. Faceva caldo e il mio pene era duro. L'ho mosso un po' e lei gemeva. Sembrava addormentata. Aveva lunghi capelli scuri, piuttosto lunghi, infatti alcuni li avevo in bocca – li ho scostati per respirare meglio, poi le ho dato un altro colpo. Avevo il doposbronza. Ho tirato fuori l'uccello e mi sono girato sulla schiena e ho cercato di ricostruire la situazione." (pag. 62)

Il bordello, ha detto, è stato il grande salvatore della mascolinità.” “Amen, ho detto, ma una donna dove può andare? Anche se per loro è più facile, non è sempre così facile. Dovrebbero esserci dei bordelli anche per le donne. Maschi leccaclitoridei con uccelli enormi e corpi muscolosi. Ma credo sia tutta una questione di domanda e offerta. Se le donne hanno un bisogno matto dei bordelli, i bordelli nasceranno.” (pag. 97)

Mi sono alzato e ho dato le spalle al letto, cominciando ad allontanarmi. La bottiglia di whiskey mi è volata sopra la spalla destra. È in quel momento che ho capito perché le devi lasciare di punto in bianco invece che con sensibilità: è un comportamento più delicato. Ho aperto le vetrate scorrevoli e ho attraversato il giardino. Lì fuori c'erano i suoi due gatti. Mi conoscevano. Mi si sono strusciati contro le gambe seguendomi mentre ne andavo.” (pag. 109)

Pronto? disse la madre di Blanche.
“Senti” disse la voce, “ti lecco tutta la figa con la lingua. Faccio a pezzetti quella tua figa maledetta. Ti farò impazzire, ti succhio la figa fino a staccartela, ti...”
La madre di Blanche teneva il telefono con due mani, ma il ricevitore era caduto e penzolava girando per aria dal filo del telefono. Quando la madre di Blanche terminò il primo urlo, attaccò subito con il secondo. E attraverso il ricevitore del telefono, che penzolava vicino al pavimento, si sentiva la voce di quell'uomo:
“Ah, ti ho eccitata tutta eh, vero piccola? Ti ho eccitata, eh? Ah, ah, ah...” (pag. 125)

Una sera era in casa sveglio. Non aveva una donna da tre o quattro anni. Si dedicava alla masturbazione, al bere e viveva in un tetro seppur piacevole isolamento. Aveva spesso pensato di fare lo scrittore e aveva comperato una macchina da scrivere di seconda mano, ma non era uscito niente da quei tasti. Beveva vino e fissava la macchina da scrivere. Si alzò, si avvicinò alla macchina e cominciò a scrivere: Quanto vorrei avere una donna. Quanto vorrei che una donna bussasse alla mia porta.” (pag. 156)

Barry disse che dovevano andare, ma io insistetti per bere un altro giro di birra. Ireen tirò ancora più su il vestito. Stavamo tutti fissando le gambe di Irene. “Venite da noi a trovarci” disse Irene. Poi si alzarano e se ne andarono. Dissi a Lila che avrei fatto il bagno. Entrai e chiusi a chiave la porta. Non usavo il sapone da anni. Voglio dire, in quel modo. Lady Godiva alla rosa. Questa volta raggiunsi l'orgasmo." (pp. 172-173)

Lucille non era di indole cattiva, voglio dire paragonata alla maggior parte di quelle che avevano vissuto con me. Come le altre beveva, mentiva, cornificava, rubava ed esagerava, ma più passano gli anni più un uomo smette di cercare materiale d'alta sartoria e si accontenta di uno straccetto. Per poi affibbiarlo, mentre si gratta un orecchio con noncuranza, al disgraziato che viene dopo di lui. Ma di solito quando le cose cominciano a ingranare un uomo saggio è portato ad accettarlo, perchè se non lo fa tanto vale rinchiudersi in uno sgabuzzino e buttar via la chiave. Cazzo, ne devi mangiare di merda prima di scoprire dove il sole va a morire.” (pag. 179)

Il telegiornale terminò e andarono in camera da letto. Lei andò in bagno per prima e Harry si infilò a letto e controllò il programma delle corse del giorno. Aveva proprio fatto un colpaccio quel pomeriggio. Forse al prossimo giro l'avrebbero messo in croce. Perché non si riusciva a trovare un sistema? Ma ciò che succedeva era che tutto continuava a cambiare. Ti mostravano un certo schema di una corsa e poi nella corsa successiva capitava il contrario. Se uno era abbastanza sveglio riusciva a capire il flusso delle maree... Tutti avevano bisogno di una specie di veleno per purificarsi. Le corse erano il veleno che lo purificano. Alcuni avevano l'arte o i cruciverba o il furto di posacenere nei bar e nei ristoranti." (pag. 187)

Okay, cos'è l'amore vero?”
“Due gatti che scopano in cortile alle due del mattino.” (pag. 191)

Come ti dicevo prima, adesso sto cercando lavoro, ma del resto lo sta cercando anche un sacco di altra gente.” (pag. 199)

Mi svegliai alle 8.30 del mattino. Meg aveva la radio accesa e ascoltava Brahms. Il volume era molto alto. Meg non solo aveva la dentiera ma aveva anche la figa secca. Non si riusciva proprio a fargliela bagnare. Era come infilare l'uccello in un rotolo di carta vetrata: te lo intrappolava e te lo scorticava e ti bruciava fino a staccarti la pelle.” (pag. 207)

L'ho spinto indietro sul letto e le sono montato sopra. L'ho baciata quasi con disprezzo e le ho infilato dentro l'uccello. L'ho ingroppata con violenza, stantuffavo e stantuffavo; sono venuto quasi subito; gemevo e sborravo; gliel'ho spruzzato dentro, sentivo la sborra eruttare, sentivo che si svuotava calda dentro di lei. Sono rotolato via. Quando mi sono svegliato la mattina, Mercedes se ne era andata. Non c'erano messaggi; se ne era andata e basta. Mi sono alzato e ho fatto la doccia ho preso un alka seltzer, due alka seltzer. Ho pisciato. Mi sono lavato i denti. Poi sono tornato a letto e ho dormito fino a mezzogiorno.
Sono passati quattro mesi adesso e lei non ha più chiamato. Non chiamerà più. Non rivedrò più Mercedes e a nessuno dei due mancherà l'altro. Che significato ha questa storiella, proprio non lo so. Adesso ce n'è una nuova di Berkeley. Ha denti da coniglio e voce da bambina. Scopa standomi seduta in braccio con la faccia rivolta verso di me. Ha ventidue anni e non ha seno. Non so cosa voglia da me. Si chiama Diane. Si alza presto alla mattina e attacca subito con il whiskey. A volte passo davanti all'edificio dove lavora Mercedes. Più vicino di così non potrò mai più esserle. Succede lo stesso a tanta gente qui in America. Facciamo cose senza sapere il perché e dopo non ci interessa più il motivo per cui le abbiamo fatte. Ma vorrei che Diane avesse più tette; più seno, volevo dire.” (pp. 239-240)