Ero già rimasto felicemente sorpreso e ammaliato dal precedente
“Knock out” (Isbn Edizioni) e sono stato colto dalla medesima sorpresa ammirazione leggendo l'ultimo romanzo di
Katie Kitamura “Una separazione” (Bollati Boringhieri, traduzione di Costanza Prinetti) che racconta con occhi femminili una separazione in divenire, un divorzio da sancire definitivamente. Kitamura racconta, con stile asciutto, algido e spettralmente carnale, una storia d'amore giunta al termine che si riannoda nella sua fine, nelle parole da pronunciare o mai pronunciate, nella fedeltà e nella morte, nei segreti e nei tradimenti. Racconta cosa sia una separazione che non avviene mai e che ti resta avvinghiata addosso impedendoti di rivivere e di amare nuovamente.
Mentre lo leggevo mi sono venuti in mente alcuni episodi del mio passato legati al tradimento.
Una volta conobbi una ragazza molto affascinante e dopo una breve frequentazione finimmo a letto. Sembrava l'inizio di una possibile storia, seppur all'insegna del non facciamo troppi progetti, poi una sera che stavo in un bar a bere una birra ascoltai un amico di amici parlare di una ragazza e di come ci era stato a letto la sera prima. Più ne parlava più capivo che stava parlando della stessa ragazza che stavo frequentando. Ne pronunciò persino il nome e confessò di essersene totalmente innamorato. Quella sera bevvi tre birre in venti minuti. Il giorno dopo quella ragazza mi disse che mi amava. La lasciai parlare e da quella sera non risposi più ai suoi messaggi.
Un'altra volta invece a Milano dopo un concerto mi fermai a parlare con degli amici e conoscenti. Uno di questi stava con una ragazza che mi piacque fin dal primo sguardo. Non mi usciva più dalla testa. Volevo vederla nuda. Volevo assaggiare il sapore della sua fica. Volevo accarezzarle il seno. Un amico al quale confessai le mie intenzioni mi pregò di smetterla perché quel ragazzo era una persona seria ed era veramente innamorato e che io non ero quel genere di persona, che ero ragazzo perbene e che non mi ero mai comportato in quel modo. Gli risposi che non potevo farne a meno e che me ne fregavo delle possibili conseguenze. Forse quella ragazza non era così tanto innamorata del suo ragazzo, forse non lo so, ma riuscii a baciarla, a finirci a letto e la sua fica era aspra come un limone. Ma dopo averla scopata una seconda volta non avevo più voglia di averci a che fare. Lei si mise a piangere mentre io volevo solo tornare a casa. Finì tutto quella sera anche se poi tutte le volte che ci incontravamo parlavamo, bevevamo qualcosa insieme come buoni amici.
Un giorno trovai quel conoscente in un bar. Stava bevendo un bicchiere di vino, si voltò e me lo versò tutto addosso. Non aggiunse una parola, dimostrando di essere veramente un bravo ragazzo.
Poi tutto è cambiato, non ho più visto nessuno di quelle persone e tramite un parente sono venuto a sapere che loro due si erano sposati e che dopo due anni avevano divorziato perché lei lo tradiva un giorno sì e l'altro anche.
Una sera l'ho incontrata in giro per la città e sembrava ancora quella venticinquenne di allora, biondissima, appesantita da mille borse dello shopping, la sigaretta sempre accesa e ci siamo abbracciati per la sorpresa. Siamo entrati in un locale, abbiamo bevuto uno, due, tre Martini. Il tempo che è volato serenamente. Ci siamo raccontati di tutti quegli anni trascorsi e poi siamo tornati alle nostre rispettive vite. Prima di salutarci mi ha chiesto “Sei ancora matto come allora?”
“La mia compagna dice di sì...e tu?”
“Ci sono giorni che ce l'ho così calda...non ci posso fare niente”
Un estratto dal romanzo della Kitamura:
“Ne “Il colonnello Chabert”, il romanzo breve di Balzac dove un marito torna dal mondo dei morti – un'opera che una volta avevo tradotto, anche se con poco successo, non ero stata in grado di trovare il registro giusto per catturare la particolare densità della prova di Balzac, di solito traduco narrativa contemporanea, cosa del tutto diversa – il colonnello del titolo è dato per morto nelle guerre napoleoniche. Sua moglie si risposa subito, a parer suo legittimamente, e diventa la contessa Ferraud. Poi il colonnello ritorna dai morti, mandandole all'aria la vita, ed è lì che comincia il racconto.
Anche se la storia pende dalla parte del colonnello – la contessa è l'antagonista, per quanto la si possa definire tale, ed è ritratta come inesperta, manipolativa e superficiale – lavorando al libro mi ritrovai a simpatizzare con lei, fino a chiedermi se quel sentimento trasparisse dalla traduzione, se avessi scelto le parole senza accorgermene. Certo, la simpatia poteva non essere così casuale: forse lo scopo di Balzac, l'effetto che voleva scatenare nel lettore, era proprio quello. Dopotutto essere senza fede e commettere bigamia senza rendersene conto è un destino orribile.
Forse proprio per via di questa preoccupazione – che si riduce a una questione di fedeltà, i traduttori si preoccupano sempre di essere fedeli all'originale, un compito impossibile perché ci sono più modi, spesso contraddittori, di essere fedeli, c'è la fedeltà letterale e c'è quella nello spirito dell'originale, frase priva di un vero significato – in quel momento pensai a Chabert. Nel mio caso, a scatenare una crisi di fede non era l'inaspettato ritorno di mio marito, ma la sua inaspettata scomparsa: era la morte, più che la vita, a far rivivere una relazione indesiderata, a riaprire una ferita ritenuta ormai chiusa.
Non era questo che temeva Yvan? Che affondassimo sotto il peso delle macerie? La linea tra morte e vita non è impermeabile, le persone e i problemi perdurano nel tempo. Il ritorno di Chabert è in sostanza il ritorno di un fantasma – solo Chabert sa di non esserlo diventato, di non appartenere più al mondo dei vivi, ed è questo il suo dramma – un fantasma o piuttosto un homo sacer: un uomo privo di status agli occhi della legge Chabert è legalmente morto; dopo Chabert e la sua fedifraga moglie o vedova, il personaggio principale del libro é Derville, l'avvocato (il conte Ferraud – in questo caso Yvan – non compare quasi mai).
Ma anche se agiamo nell'illusione che ci sia una sola legge a regolare il comportamento umano – uno standard etico universale, un sistema legale unificato – in realltà ci sono più leggi, ecco cosa cercavo di dire a Yvan. Non era anche il caso di Billy Budd? Il capitano Vere è intrappolato tra due leggi, quella marziale e quella di Dio. Non ha modo di fare la scelta corretta, è tormentato dalla morte di Billy Budd, “Billy Budd” sono le sue ultime parole prima di morire (nel romanzo; l'opera – il libretto è di E.M. Foster – garantisce a Vere la vita, avendo Foster e Britten scelto di evitare il cliché operistico di un ennesimo cantante che stramazza a terra nell'atto finale).
Solo quando Chabert riconosce che la sua condizione legala è separata dalla realtà - cioè che sarà sempre e solo un fantasma per la contessa, e che perseguiterà i vivi quando non dovrebbe – solo quando riconosce la molteplicità delle leggi che governano il nostro comportamento, solo allora si lascia relegare in un ospizio o in un manicomio, e accetta finalmente il suo status di homo sacer. Chabert rinuncia proprio a quei diritti che ha incaricato Derville di ottenere, vale a dire il riconoscimento del suo status di colonnello e marito agli occhi della leggere. Scivola nelle crepe, oltre il raggio della legge; cessa di esistere.” (pp.154-156)