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mercoledì 29 novembre 2017

Andrea Chénier


La prima della Scala di Milano quest'anno sarà "Andrea Chénier", opera di Umberto Giordano (un'opera che probabilmente in molti avranno conosciuto grazie al film "Philadelphia") e su Andrea Chénier scrisse, durante la carcerazione a Fresnes nel 1945, dove poi sarebbe stato fucilato, e uscito postumo nel 1947, un saggio anche il mio amato Robert Brasillach dal titolo "André Chenier", che io posseggo nell'edizione Scheiwiller del 1974:


e di cui vi trascrivo un piccolo passo:

"Il tempo ha mutilato molti dei gioielli della lirica greca, e, così facendo, ha collaborato con loro: da un verso di Saffo, da una strofa di Alceo, da un canto tutto corroso di Alcmane, infatti, nascono impressioni analoghe a quelle che ci danno le colonne rovesciate, i templi distrutti, impressioni forse ancora più toccanti di quelle che ci sarebbero venute dall'opera intatta. La pigrizia, il caso e la morte hanno conferito caratteristiche simili ai poemi di André Chénier. È evidente che questo scrittore, al pari di molti altri non amava scrivere. Gli piaceva scrivere su quello che avrebbe scritto. Per certe composizioni di venti o trenta versi si hanno uno o due canovacci, con dei versi emersi dall'ignoto, alcune righe di prosa, tutto un lungo lavoro preparatorio al quale amava dedicarsi. A volte, da questi appunti buttati giù alla svelta scaturisce una grazia indimenticabile che, a opera compiuta, si sarebbe magari dissolta in una certa freddezza. Gli scritti di Chénier non eguagliano certamente mai quelli di Pascal, e non si immaginano temperamenti più opposti di quelli dei due autori; eppure, essi avevano on comune una caratteristica curiosa di cui non conosco altri esempi nella letteratura francese: i loro scritti sono dei brogliacci."

martedì 28 novembre 2017

"Fino a prova contraria" di Annalisa Chirico (Marsilio), spunti/appunti/trascrizioni


Trascrivo alcuni appunti/spunti/trascrizioni mentre leggevo il nuovo fiammeggiante e necessario saggio di Annalisa Chirico: “Fino a prova contraria. Tra gogna e impunità, l'Italia della giustizia sommaria (Marsilio):

- A me Annalisa Chirico sta molto simpatica perché è una delle poche persone/giornalisti capaci di far girare le palle ai giornalistitrascriventi de Il Fatto Quotidiano & Co. conducendoli quasi al punto di ebollizione 
- Annalisa Chirico è una donna affascinante e ha delle gambe molto belle
- certe volte mi ricorda mia sorella che quando decide di scassarti le palle puo' andare avanti per giorni e giorni senza mai stancarsi


- Uno degli slogan più insopportabili che ho sentito nella mia vita è stato “Onestà Onestà”
- così come mi fecero orrore i lanciatori di monetine contro Craxi e in generale quella narrazione da fantasy che racconta di un popolo onesto e vilipeso che si crede migliore dei politici o delle istituzioni e che invece non lo è e che anzi è sempre pronto a vendersi al miglior piazzista, capopopolo, comico, rivoluzionario del momento
- perché Annalisa Chirico, sempre, in tv e anche in questo libro, ricorda sempre la presunzione d'innocenza e che la colpevolezza/innocenza non è data dalle intercettazioni, dai resoconti giornalistici, dalle simpatie o antipatie ma dal dibattimento e dalla sentenza
- e anche quando non sono d'accordo con lei su alcune impostazioni molto liberiste e per lei io sarei un noiosissimo ambientalista, fascista/anarchico/populista mentre lei sembra quasi aver trovato in Renzi un approdo, trovo piacevole e stimolante leggerla e ascoltarla, forse anche solo per il carattere battagliero e irrequieto che abbiamo in comune
- il suo stile di scrittura. Annalisa scrive bene, in maniera puntuale e accattivante e leggo sempre con piacere i suoi articoli
- “Viviamo nell'era della posta verità. Addio fatti, contano opinioni e umori: a prevalere è la carica emozionale degli annunci, la forza persuasiva delle opinioni, quand'anche fossero palesemente infondate, false, inventata. Il processo, attraverso il dibattimento tra le parti in condizioni di parità dinanzi a un giudice terzo e imparziale, servo ad accertare la verità giudiziaria, vale a dire le responsabilità individuali in presenza di un reato. Tuttavia la verità giudiziaria non sempre coincide con quella storica; bisogna perciò rifuggire dal delirio di onnipotenza togata: la giustizia umana può sbagliare, e tale consapevolezza è un valido argomento contro la pena capitale. Dalla post verità alla post giustizia il passo è breve . In Italia la giustizia fallace e illusoria non è soltanto quella delle sentenze ribaltate, dei verdetti di colpevolezza che si rivelano errati, delle inchieste manipolate, delle intercettazioni travisate spacciate per prove inoppugnabili. La post giustizia sembra essere l'unica ancora rimasta a cui aggrapparsi: i processi avanzano con lentezza al punto di finire falcidiati dalla prescrizione; i cittadini, fruitori del servizio, si rassegnano alla post verità di una giustizia sommaria, incentrata su verdetti preventivi e gogna mediatica, su indagini enfatizzate a scapito del dibattimento, sull'uso abnorme delle manette in assenza di condanna, meglio questo che l'impunità certa. Nell'opinione pubblica s'instilla così il pregiudizio di colpevolezza nei confronti di presunti innocenti. Se a distanza di anni una sentenza definitiva smentisce radicalmente la tesi “giustiziera”, le conseguenze del teorema sconfessato nei successivi gradi di giudizio si sono già avverate: un sindaco si è dimesso, un'azienda ha portato i libri in tribunale, un matrimonio è finito, una persona si è ammalata, qualcuno si è tolto la vita. A conferma che una post verità, ripetuta cento volte, produce effetti reali.” (pp.112-113)
- 1)una persona può liberamente decidere che la Giustizia può essere altro e venire amministrata da un tribunale del popolo, dal tribunale di Dio, da quello del Re ma se lo fa deve accettarne il prezzo 
- 2) e infatti si nota subito come il tribunale del popolo grillino si modifica a seconda delle occasioni, diventando uno strumento in mano al Potere che santifica o glorifica, che espelle o che condanna
- 3) non ho mai creduto nella Giustizia giusta e i Tribunali mi hanno sempre fatto orrore, li ho frequentati, ho seguito processi a carico di persone che conoscevo e la sensazione è sempre stata di profondo straniamento e anche sostanziale presa per il culo e pochissimo rispetto per gli imputati
- 4 ) leggere Annalisa, Il Foglio e tutti i garantisti sinceri mi permette di tenere a bada le mie pulsioni moralizzatrici e peggiori, di agionare, allargare il discorso, non diventare schiavo delle ideologie e di avere il coraggio di non vergognarmi di me stesso
- 5) ed è anche per questo che continuo a detestare la carcerazione preventiva ai danni di presunti colpevoli o del 41bis, forma di tortura ai danni di alcuni carcerati
- “Giustizia è politica perché la politicizzazione della giustizia italiana è un Giano bifronte: da una parte, taluni con indosso la toga perseguono obiettivi politici con mezzi giudiziari, acquisiscono notorietà non per le condanne ottenute ma per il clamore delle inchieste, gli arresti eccellenti, il protagonismo mediatico che si rivela poi un formidabile trampolino di lancio verso altri scranni. Dall'altra parte, una classe politica inetta e screditata politicizza la giustizia ogni qualvolta vi ricorre per risolvere questioni extragiudiziarie, strumentalizzando, all'occorrenza, avvisi di garanzia e arresti preventivi allo scopo di contrastare un avversario” (pag. 9)
- leggendo questo libro mi convinco sempre più di due cose: 1) che la prescrizione non deve essere abolita 2) che il politico non deve avere un vincolo di mandato
- prima di cominciare a leggere questo libro sui media e anche al lavoro si parlava del cane che aveva ucciso l'addestratore e giù con discussioni sui cani violenti e da abbattere, salvo poi scoprire che il cane era innocente. Nella giustizia grillina e del popolino il cane sarebbe già stato probabilmente abbattuto.
- “Giustizia e politica perché ci sono magistrati pronti a imbastire indagini e processi non per accertare eventuali responsabilità, ma per riscrivere pezzi di storia patria, per condurre campagne moralizzatrici, per legittimare cure mediche bocciate dalla scienza ufficiale, per criminalizzare apparati dello Stato in nome di una pretesa, e indimostrata, verità.” (pag. 11) e su questo punto aggiungo: come sono stati possibili, ad esempio, il caso Stamina o quello di Ilaria Capua? Due casi che sono la perfetta dimostrazione dell'intreccio carnale fra tv d'assalto al servizio del cittadino consumatore, giornalismo d'accatto, politici compiacenti e magistrati che, con la mano sul cuore puro e duro, combattono per la povera gente dimenticata dallo Stato.
- “Esiste un antidoto contro la repubblica giudiziaria: si chiama “primato della politica”. Soltanto una politica forte, consapevole della propria missione, può essere il motore del cambiamento.” (pag. 171) e sono parole che condivido pienamente, peccato però resteranno chissà ancora per quanto solo un auspicio.

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lunedì 27 novembre 2017

Manetti! Anteprima su Rockerilla

Letteratura giapponese, Marcello Veneziani, la donna perfetta, Godless, film

Due romanzi giapponesi: "La danzatrice di Izu" di Kawabata Yasunari (Adelphi, traduzione di Gala Maria Follaco e Giorgio Amitrano) l'ho appena letto e l'ho trovato bellissimo, quasi purificatore, mentre "Raffiche d'autunno" di Natsume Sōseki (Lindau, traduzione di Laura Testaverde) l'ho segnato fra i primissimi romanzi che leggero' prossimamente.


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In questi giorni intorno al tema delle violenze sulle donne si sta parlando, scrivendo, discutendo, manifestando molto. 
Avrei molte cose da dire ma vorrei solo dedicare un pensiero buono e un abbraccio a quelle mie colleghe che dalla mattina alla sera, 7 giorni su 7, non tirano mai il fiato senza quasi mai ricevere un grazie, un aiuto dai propri mariti o compagni: figli, due lavori, orari improbabili, la famiglia, la scuola, la spesa, la lavatrice, i dottori, il sesso, stirare, eccetera, eccetera, e tutto quello che fanno è dato per scontato perché sono donne, madri, figlie, compagne, troie, amanti. E loro si consumano e stanno zitte. A queste due mie colleghe va un abbraccio grande come una casa. 
Ringrazio invece mio padre che ha sempre aiutato mia madre nelle faccende di casa. Che non si è mai fatto problemi a lavare i piatti, cucinare, fare la lavatrice, passare la lucidatrice e che ha insegnato a me e mia sorella a darci da fare, sempre e comunque in casa.
E chiudo strappandovi un sorriso:






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Si sta assistendo a una rinascita del western, come produzioni, qualità e interesse del pubblico e a me piacerebbe trovare il modo di vedere la serie "Godless" di cui si parla su Far West.

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Tre film che ho visto e amato in questi ultimi anni:





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La mattina c'è una cane che mi aspetta sempre per farsi accarezzare.
Quando lo accarezzo è come se fosse lui a farlo con me.

domenica 26 novembre 2017

Eluvium - Shuffle Drones


Perchè poi la sera, stanco e senza pensieri, io preferisco immergermi in Eluvium che preoccuparmi d'altro.

sabato 25 novembre 2017

Un film imbarazzante



Del caso Emanuela Orlandi ne sento parlare fin da piccolo perché alcune volte veniva usato, a seconda dell'occasione o del fatto del giorno, come argomento di discussione/clava/provocazione coi due malcapitati religiosi di famiglia (una suora e un prete, oggi esorcista in pensione). Malcapitati che comunque difendevano e difendono ancora oggi, a loro modo, l'operato della Chiesa e il disegno di Dio.
Crescendo ho poi, anche un po' per caso e senza approfondire molto l'argomento, letto articoli e seguito trasmissioni dedicati alla sparizione della ragazza romana e allora ieri sera ci siam detti, io e la mia compagna, Visto che siamo molto stanchi e vogliamo solo staccare la spina perché non diamo un'occhiata al film di Roberto Faenza che danno su Rai3.
E allora l'abbiamo guardato questo "La verità sta in cielo" e l'abbiamo trovato tutti e due un film imbarazzante.
Dal primo all'ultimo minuto.
Sceneggiatura claudicante che, al di là dei rimandi alla realtà/indagini/verità, sembra la classica mescita di intercettazioni e ricostruzioni pubblicate sul Fatto & Co. che dopo che le hai lette, cazzo ti è servito averle lette? Cristo Dio di merda una lettura ai romanzi di James Ellroy qualcuno di questi registi la darà mai per capire come sulla sfumatura di fatti reali o presunti si possano creare scene/romanzi/film memorabili? Una Roma che sembra uscita dal peggior fondale del peggior Peplum. Un inascoltabile, improbabile e inguardabile Shel Shapiro. Per non parlare dei dialoghi che mi hanno fatto accapponare la pelle. E cosa dire di Scamarcio? E di quel cazzo di dito medio che fa una sbirra che mi ha fatto rimpiangere tutti i cazzo di serial polizieschi americani? E di questi ambienti malavitoso/religiosi che sono ritratti senza nessuna vera profondità? Possibile decidere di far uscire un film del genere su un argomento che avrebbe meritato tutt'altro respiro (anche se supportato dalla famiglia) e invece naufraga in una melassa all'italiana tutta all'insegna del fantomatico cinema di qualità civile che di qualità non ha un bel niente e che di civile ha solo l'imperativo di farti rabbrividire e spingerti a dedicarti ad altro?
E davvero, la serie "Gomorra", che manco mi piace, è di tutt'altro spessore.
Cosa salvo di questo film?
Una sola cosa: il personaggio di Greta Scarano nella parte di Sabrina Minardi, la sua straordinaria bellezza e anche la sua bella interpretazione.



Potrei parlare anche della bellezza di Valentina Lodovini ma il suo personaggio era così insopportabile che preferisco soprassedere.

Certe volte faccio cose solo per il gusto di farmi del male e ingrossarmi il fegato.

venerdì 24 novembre 2017

Mia sorella, attentati, karaoke

Io e mia sorella non è che ci vediamo e parliamo molto. Diciamo che ci vediamo, sette-otto volte all'anno, al massimo. Anche ora che io sto a Lugano e lei a Milano, quindi abbastanza vicini per allontanarsi ancora di più e litigare, discutere tutte le volte che ci sentiamo. Ma sapere che è partita per l'Egitto per il suo nuovo ciclo di scavi nel giorno di un attentato di queste dimensioni (va in Egitto credo ormai da quasi vent'anni ed è abituata a tutto ormai) mi ha comunque spaventato e fatto pensare a lei.

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Quando mi capita di riascoltare questa canzone mi viene da pensare a mio padre. Poi quando la riascolto ancora penso alla nostra famiglia. A me, mia sorella e mio cugino che non avremo probabilmente mai figli. Che non so e non sappiamo più niente degli altri miei primi cugini. Poi confermo a me stesso che è per questo che ho così tanta paura del romanzo che sto scrivendo e che ci sono giorni che non riesco nemmeno a lavorarci sopra. Perché mi porto addosso il peso di tutti questi anni e che sostanzialmente questo romanzo è dedicato alla mia famiglia. È nato da loro e lo sto scrivendo senza scrivere di loro o della mia famiglia. Ma sto scrivendo di ciò che conosco. La solo regola,  quasi spietata, che mi sono dato nella mia vita. Scrivere e parlare solo di ciò che conosco. 

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Ci sono ancora i karaoke.
E ho scoperto che ci vanno ancora un sacco di persone.
Colleghi.
Colleghe.
Loro ci vanno quando capita.
Si divertono, conoscono donne, uomini, bevono, dimenticano le fatiche del lavoro, mangiano pizze surgelate, costine, specialità balcaniche, patatine fritte.
Guardano partite alla tv, lanciano freccette, fumano all'aperto guardando il traffico notturno.
Uno di loro mi racconta di aver conosciuto ieri sera una bionda con le gambe bellissime.
Mi mostra la foto e io gli chiedo come è andata il proseguo della sera. 
Lui non risponde e mi mostra un video dove lei canta malissimo una canzone di Battisti guardandolo mentre la riprende. 
La donna che è bellissima, ancheggia, mima un ballo sensuale, svuota il bicchiere  in un sorso solo quando la canzone finisce.
I tavoli sono dozzinali e si vede gente che si sposta per andare a pisciare e fumare.
Le bariste sono vestite anni '80 e traballano sui tacchi.
Mentre mi sta parlando io respiro quel calore umano fatto di piccole e semplici cose, di bar di periferia dove l'umanità s'incontra così tanto per incontrarsi e poi torna a casa ubriaca, stanca, sporca, senza soldi, rilassata e poi la mattina si risveglia, fa colazione e doccia e torna al lavoro, con dignità stoica, e quel lavoro lo fa con serietà e nella pausa fuma una sigaretta e ripensa a quelle gambe, a quella birra e sorride, pensando al prossimo giovedì di karaoke quando rivedrà quella donna e le offrirà qualcosa da bere e le chiederà come si chiama perché il suo nome non gliel'ha mai chiesto.

In breve su "Lonesome Dove" di Larry McMurtry (Einaudi)


L'ho atteso, l'ho comprato e ho (ri)letto le sue 936 pagine in meno di una settimana.
“Lonesome Dove” di Larry McMurtry (Einaudi, nella nuova traduzione di Margherita Emo) è un romanzo western ma deluderà tutti coloro che hanno un'idea del West fatta di sparatorie con fucili che non hanno mai bisogno di essere ricaricati, imboscate, eccidi, assalti alla diligenza, duelli in mezzo alla strada, mandrie, cavalli al galoppo, paesaggi immensi, indiani feroci o sterminati. Non che nel romanzo di McMurtry non ci siano duelli, morti, scontri, lazos e ranch ma un qualunque lettore resterà  sorpreso da due caratteristiche fondamentali di questo romanzo: la descrizione psicologica dei numerosi personaggi e lo sterminato numero di dialoghi dal ritmo impeccabile che proseguono ininterrotti per pagine e pagine. A McMurtry interessa raccontare un mondo che sta giungendo al termine (siamo verso il 1876 e si vivono gli ultimi fuochi delle guerre indiane), crepuscolare, intristito, la Frontiera si sta chiudendo, i bisonti sono stati sterminati,  i territori liberi stanno scomparendo, e lo fa raccontando le piccole grandi storie di due ranger impegnati nell'ultima avventura della loro vita (portare una mandria dal Texas all'ancora per poco selvaggio Montana), di una prostituta in cerca di riscatto e di una famiglia, di immigrati irlandesi aggrappati al sogno della terra promessa, di indiani disperati che combattono le ultime disperate battaglie, di delinquenti di piccola tacca o feroci assassini, di giocatori d'azzardo e di vita (la figura di Jake Spoon mi ha commosso oggi come la prima volta che lessi il romanzo), di ragazzini che devono crescere in fretta se vogliono sopravvivere, di semplici cowboy che piangono dopo una tragedia, di tenutari di saloon che si lasciano morire per non appassire, di uomini che finiscono sulla forca accettando il proprio inevitabile destino. McMurtry ci fa conoscere, con una lentezza fuori dal tempo e con squarci di pura bellezza letteraria, le loro paure, le loro passioni, il loro senso dell'onore, la loro pochezza, i loro sogni, i loro amori. E lo fa portandosi dietro la Morte, che è il vero e proprio convitato di pietra di tutto il romanzo. La Morte che diventa il motore di nuove storie. Che lascia silenzi. Che viene interrogata ed evocata. Che diventa tombe anonime lungo la pista. Che diventa una promessa da mantenere. Che si fa generazione che scalpita. Che diventa amicizia, resurrezione, sorrisi, libertà, bellezza, sesso, caso, destino, un mazzo di carte truccato, un cavallo indomabile.



martedì 21 novembre 2017

Martedì e febbre

Anche se avevo la febbre son dovuto comunque uscire per sbrigare alcune commissioni e sull'autobus, seduta davanti a me, c'era una ragazza che leggeva questo capolavoro che prima o poi riprenderò in mano:


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Se penso a un autore del quale vorrei leggere qualcosa di nuovo, il primo che mi viene da citare é St Aubyn. Uno scrittore che praticamente, almeno a quanto sembra, non viene quasi mai ricordato eppure i romanzi che compongono la saga de I Melrose sono splendidi:




e bellissimo é anche "Senza parole":





Non smetto mai di consigliarlo come autore quando qualcuno mi chiede consigli su autori che non siano i soliti o quelli sulla bocca di tutti.

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Dieci anni fa la figlia di un'amica raccontandomi della sua esperienza in Erasmus mi disse“Zio Andrea, non sai quanti cazzi mi son fatta in Spagna. I migliori sono quelli dei belgi”.
Conoscendola non stava mentendo.
L'ultima volta che ho incontrato sua madre mi ha detto che la figlia é ancora la stessa dell'Erasmus e l'Università non l'ha mai finita e che ha trovato lavoro come OSS.

Eh sì, sto parlando proprio di voi, madre e figlia, che frequentate questo blog tutti i giorni e mi dite che sono un pesantone di prima categoria.

Fregate!
Buon compleanno Caterina e buona guarigione e grazie per tutto quello che fai col tuo lavoro!
Grazie davvero.

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La gioia di sfogliare cataloghi di prodotti per la pulizia prima di chiamare i fornitori.
Un mondo  intero che si apre davanti a me.
Sicuramente meglio di lavorare in una casa editrice o come ufficio stampa o in un giornale o robaccia del genere.

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Me lo ci vedo Dibba come prossimo Premio Strega.

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Non preoccupatevi. Tutti che piangono poi il lavoro lo trovano sempre in poco tempo.

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Film di questo genere attualmente non ce ne sono in giro:


lunedì 20 novembre 2017

A fine serata

A fine serata con le dita delle mani che mi fanno un male cane mi viene:

- da pensare che un paese e compagnia belante giornalistica al seguito, ma lo fanno in tutti i paesi, che fra le prime notizie mettono le dimissioni di Tavecchio è un paese che merita di patire le mille e mille maledizioni d'Egitto.

- da sorridere beato per l'assegnazione dell'Ema ad Amsterdam. Milano è una città che ha già subito troppo. Ci saranno valanghe di persone che si staranno mangiando le dita, in particolare albergatori, papponi, ristoratori, eccetera, eccetera. Cazzi vostri stronzi che avete rovinato questa città.

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Libri in arrivo e che leggero':





domenica 19 novembre 2017

Appunti domenicali

- Ascoltare, fingendo di stare appresso a questo concerto dopo una giornata devastante, la mia compagna inveire e infuriarsi contro Gramellini, Cazzullo, il figlio di Terzani e quell'altro della Fernet Branca su cui era incappata in una delle poche volte che accende la tv (la mia compagna è una delle persone fra quelle che ho conosciuto che guarda meno tv in assoluto), mi ha ricordato, anche se non ce n'era bisogno, quanto la amo.

- Sto invecchiando ma ci sono piccole cose che mi fanno sentire bene nei miei quasi quarant'anni e che nello stesso tempo mi fanno stare bene da sempre. 
Se guardo le foto o i filmati della manifestazioni studentesche mi salgono la tristezza e l'angoscia  e mi manca il fiato, nessun entusiasmo. Gli stessi slogan di quando ero un ragazzino, leggermente modificati, quel modo fastidioso d'intendere la musica sparata dai furgoncini, i leader studenteschi e la loro parlata, la contrapposizione con gli sbirri, gli striscioni con le parole d'ordine del momento, eccetera, eccetera. 
Invece mi riempio di ricordi buoni, di leggerezza e sogni guardando un bambino che con la bocca aperta e gli occhi sbarrati ammira i cammelli del circo. Accanto a lui il padre e la madre gli raccontano storie inverosimili su quei cammelli e sui paesi da dove arrivano. Non gli parlano di animalisti, di torture, di caccia, di estinzione. Gli raccontano fiabe e gli fanno sognare avventure incredibili.


venerdì 17 novembre 2017

Ancora su Bangkok



Ci sono libri che mi restano incollati addosso.
Potrei fare molti esempi.
Ma rileggendo “Bangkok” di Lawrence Osborne (Adelphi, traduzione di Matteo Codignola), anche per il legame che questo libro intreccia con “Piattaforma”, ho ripensato con insistenza alle migliori pagine di Michel Houellebecq. 
Quella sensazione che non sto solo trascorrendo del tempo ma che sto scavando, attraverso la lettura, dentro a me stesso e facendolo da quelle pagine me sento messo a nudo, compreso, sconvolto, illuminato, cullato, percosso, cullato e questa sensazione di benessere intellettuale ed emotiva non smette mai di abbandonarmi. 

Rileggendo “Bangkok”, a metà fra un memoir, un reportage, una guida turistica, un romanzo e permeato da una sensibilità disarmante anche nei suoi brani più cupi, si sono riattivate le stesse scosse di un tempo e da cui mi sono fatto trascinare con tanto piacere, disinteressandomi di molte delle azioni quotidiane che avrei dovuto compiere una volta tornato dal lavoro.

Trascrivo due estratti, il primo perché mi ricorda tantissimo un vecchio collega di mio padre, uomo gentilissimo e totalmente innamorato del piacere, il classico puttaniere:

A Brian piaceva mettere la sua mano tremula nelle loro, scambiarsi qualche goccia di sudore, e fare due passi fino all'albergo a ore vicino al Soi Cowboy. Gli piaceva, quel posto così sordido, e gli piacevano i soldi, le formalità, il fatto che tutto quanto si svolgesse sempre nello stesso modo. Gli piaceva che fosse una faccenda nuda, essenziale, come un ballo imparato a memoria, un passo dopo l'altro.
Ne parlava col distacco ironico di chi non si fa illusioni su se stesso, e nel suo tono sentivo tutte le qualità dell'anziano puttaniere – un tipo umano con cui quasi nessuno simpatizza, ma io sì, non so che farci. Il mondo si divide in chi pensa che la vita sia una faccenda allegra, positiva e sotto controlla, e chi no. Io no. “Non ho mai capito che cosa ci trova la gente nelle prostitute,” pare abbia detto una volta Michael Myers al suo amico Graham Greene, che ne andava notoriamente pazzo, “è come pagare qualcuno per farsi battere a tennis”. Ma in certi momenti uno vuole proprio questo, perdere a un gioco del cavolo, provare la dolcezza della sconfitta.” (pp. 105-106)

e poi il finale del libro:

Dimenando i suoi grossi, goffi fianchi maschili, Juicy è sfilata davanti alla scuola dei monaci e al caotico mercato sul fiume, fino a raggiungere un moletto con i gradini che scendono nell'acqua, come quelli di un tempio indiano. In quel punto il fiume improvvisamente si apre, diventa immenso, color latte. Gli altri sull'altra riva hanno sempre un aspetto invernale, dovuto credo all'inquinamento. Sul molo c'è una strana statua di un marinaio in uniforme che scruta Bangkok, dall'altra parte dell'acqua, con gli occhi sbarrati. Sui gradini si ammassano centinaia di piccioni in attesa del becchino. Chissà quanto sarebbe piaciuto a Felix.
Con qualche esitazione, tenendo stretto il sacchetto del pesce gatto, Juicy ha sceso i gradini, fino a  quando le onde non le hanno lambito i tacchi a spillo. Poi ha aperto il sacchetto con un certo nervosismo e lo ha abbassato fin sul pelo dell'acqua. Il pesce ha avuto una specie di contrazione nervosa. Vita o morte? Fiume o wok?
Alla fine è guizzato via, tuffandosi fra le alghe galleggianti per raggiungere un'intera colonia di suoi simili, che veniva lì sotto a mangiare le briciole sparse dai monaci. Un calderone ribollente di pesci gatto schizzati, più qualche anguilla appena liberata.
Juicy ha rabbrividito, e si è voltata verso di me. Con quegli zigomi alti, incipriati fino all'insolenza, e quell'eccesso di rosso – per tacere dell'iscrizione sul retro – era un'apparizione. E di colp, guardando lei, ho visto tutti i farang che vivono a Bangkok, e come piccole falene girano intorno alla fiamma che a suo modo anche lei incarnava. Volgare, bellissima, dura. Il sesso di un essere senza sesso, che libera pesci gatto e sa che si incarnerà in qualcos'altro. Magari in una rana. O in un uomo.
“Bai nai?” mi ha chiesto.
In quel momento mi sono ricordato perché amo il buddhismo, anche se non riesco a crederci: perché ha bandito il dramma dell'amore. Molto semplicemente, l'amore non trova posto in una visione che giudica gli animali e gli uomini, con molta chiarezza e altrettanta freddezza, per quello che sono. Le miserie dell'amore non guadagnano mai il centro della scena. Per noi, che imparaiamo a credere all'amore fin dal primo giorno, che lo consideriamo un desiderio acquisito, è sbalorditivo. L'immagine che abbiamo di noi stessi non riesce a essere così fredda. No, noi pensiamo alle nostre vite come maestosi drammi imperniati sull'amore – e naturalmente ci sbagliamo di grosso.
Mentre scendeva la sera, e Juicy e si allontanava con un sorriso altero e un po' deluso, ho ripensato ai fiumi che amavo, il Chao Praya e l'East River, e a ben vedere mi sembravano identici. Anche i fiumi possono rinascere? E i pesci gatto? E le città? Un'altra cosa che non capivo era come mai tanti anni prima, vedendo i monaci scendere al molo 10, non avessi mai fatto due più due, non avesse mai pensato che erano i monaci del Wat Rakhang. In un certo senso mi avevano sempre fatto compagnia, ma non avevo mai pensato che fossero reali. Li consideravo immaginette di un'altra epoca, sottovalutando fino a che punto fossero vivi.
E così ho ripensato a loro. A loro in non so neanche più quale anno, che scendevano dai taxi d'acqua a Wang Lang. Alle loro tuniche, ai loro ombrelli di plastica, ai rosari, e al modo in cui guardavano in alto, verso l'uomo sperduto che beveva un gin tonic in terrazza. Sì, al modo in cui guardavano il nuovo arrivato nel suo piccolo angolo di paradiso impermanente, con l'aria ironica e distaccata di chi si chiede, “Allora, è questo, un uomo solo?”. (pp 259-260)

mercoledì 15 novembre 2017

Lavoro/Cinema/Bangkok; Annalisa Chirico/Fino a prova contraria; Quicksand

Da un anno, anche se potrei anche dire due, lavorare al cinema non è piu' la stessa cosa di prima. In questi due anni ho assistito al cambio di proprietà e il cinema che finisce nelle mani di una catena, il cambio del direttore, i licenziamenti, i cambi di personale, il rifacimento di molte parti della struttura, il mio nuovo contratto che è identicamente precario a quello precedente. Sto vivendo direttamente sulla mia pelle anche la crisi del cinema, di un certo tipo di blockbuster, le logiche assurde (ma ovviamente "logiche") delle catene, la distribuzione assente dei film di qualità, l'imbarbarimento del pubblico e molto altro. Personalmente poi sento la mancanza delle due colleghe orientali che tanto mi hanno insegnato e che in un qualche modo mi permettevano di vivere le fatiche lavorative in un altro modo. Ho pensato a loro ieri, riprendendo in mano, un po' per caso, questo bel libro di cui vi scrivo una piccola parte. La mia collega thai mi diceva sempre "A te piacere possibile tanto Bangkok"


"Questa parte di Rattanokosin, subito a nord del punto in cui il canale si getta nel fiume, è uno dei pochi resti della città vecchia che le autorità non hanno spianato coi bulldozer. Si saranno distratte, chi lo sa. Le superfici delle case sono un labirinto verticale di crepe e fessure, dove le cicale, che probabilmente le scambiando per una foresta artificiale, nidificano. È inevitabile chiedersi come si presentassero le mostruose città orientali di oggi prima di sposare il nostro modello di sviluppo, prima che il loro ideale estetico diventasse l'architettura di Citibank. Nelle vecchie fotografie di Bangkok si vedono viali, filari di alberi, una pianificazione urbanistica meditata e ariosa. Le case sono costruite a una distanza accettabile dalla strada, ed esibiscono facciate cui qualcuno ha rivolto almeno un pensiero. C'erano canali - klong - dappertutto. Poi, in una fase imprecisata dell'Ottocento, i cinesi si sono messi a costruire quartieri commerciali densamente abitati, a immagine e somiglianza di quelli che si erano lasciati alle spalle. E gli spazi, a uno a uno, si sono riempiti. La distruzione è stata completata fra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso, quando i canali sono diventati strade a scorrimento veloce. Fino agli anni Ottanta la grande arteria di Sathorn era appunto un canale. Gli uccelli migratori si fermano ancora sugli alberi che la costeggiano, come ricordassero che li' un tempo c'era l'acqua. Dev'essere che gli uccelli hanno un rapporto col passato migliore, piu' amorevole del nostro.
Ma la notte gli strati piu' fondi di quel palinsesto riemergono. La città diurna si sgretola, e il passato riaffiora. È un fenomeno che Brian conosceva benissimo, anche perché alimentava la sua rabbia verso un mondo ogni anno piu' brutto.
Ad esempio, lo sapevo che secondo le statistiche della World Meteorological Organization Bangkok risulta la metropoli piu' calda del mondo? Con quaranta gradi di media forse potevano inventarsi qualcosa di meglio che tirar su quell'inferno di cemento da quattro soldi, vetro e acciaio, no? "Guarda invece questo quartiere," ha continuato oscillando sul suo bastone "ha qualcosa di tenero".
Migliaia di conchiglie appese ai fili, vibranti. La strada come una nave di vetro scossa dal vento. Centinaia di vasi da fiore nella luce delle lampade. Case gialle con porte rosse, giardini sbilenchi. Un albero in fiore che occupava l'intera strada, il suono arcaico delle radio. Ero felice di aver portato qui Brian, perché lo vedevo riprendere vita. Tutta quella rabbia gli faceva bene, perché gli uomini delle razze fredde hanno dentro una polla di lava incandescente che ribolle di amarezza e poesie. Per un attimo ho pensato alla mia famiglia: ufficiali, contadini silenziosi e diffidenti, muschiose chiesette di paese lungo l'Ouse, piene di bandiere ammuffite e di vecchie insegne dei reggimenti. E vicari identici a quello del romanzo di Goldsmith. Che razza di gente eravamo?
"Era tutto pronto per il domani," ha scritto una volta Henry Miller dei suoi antenati nordici "ma il domani non è mai arrivato. Il presente era solo un ponte, e loro sono ancora li' sopra, a gemere, cosi' come il mondo geme, senza che al primo cretino che passa venga in mente di farlo saltare, il ponte".(pp. 40-42)

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"Slip" dei Quicksand è uno di quegli album che ho ascoltato tantissimo nella mia adolescenza.  qualcuno magari si ricorderà di "Fazer". Un disco che avevo in cassetta e che ho poi recuperato scaricato. Perché la cassetta si è autodistrutta. Walter Schreifels si era poi rifatto vivo con i Rival Schools che avevano registrato una canzone della madonna come questa.


Sulla Epitaph mi viene solo da scrivere che ai tempi del Collegio, sul treno, conoscevo un paio di tizi che ascoltavano un sacco di gruppi di questa etichetta. Forse anche solo quelli della Epitaph.

martedì 14 novembre 2017

Tom Drury, Montaigne, Zigmunds Skujiņš, David Szalay, Good Time, la Sinistra



Letto pressapoco in un paio di giorni e devo ancora rifletterci sopra.
A pagina 87 si trova una bellissima citazione di Montaigne:

"Non può un uomo innalzarsi al di sopra di se stesso e della propria umanità" dice Montaigne. "Noi siamo, non so come, duplici in noi stessi e ciò fa sì che ciò che crediamo non lo crediamo e non ci possiamo disfare di ciò che condanniamo". (pag. 87)

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I Paesi baltici mi hanno sempre affascinato.
Peccato pero' che da quelle parti faccia un freddo cane che mi ucciderebbe.
Questo romanzo l'ho messo in lista

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Altro libro messo in lista.

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Molto curioso di vedere questo film.

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Potrei aprire una rubrica fissa sulla situazione attuale della pseudo sinistra italiana. 
Proprio ieri mi ha scritto un amico. Figlio e nipote di comunisti e socialisti. Da sempre uomo che ha votato per Rifondazione o Partito Comunista dei Lavoratori. Iscritto alla Cgil. Tempo fa mi aveva chiesto di consigliargli qualcosa da leggere e io gli avevo risposto, visto che non ci sentivamo da un po' di tempo, chiedendogli poi come stavano i suoi figli, sua moglie e punzecchiandolo sulla sua fede comunista.
Ieri mi ha risposto dicendomi che per la prima volta nella sua vita alla prossima tornata elettorale resterà a casa. Che se ne infischia dell'argine contro le Destre, i grillini, eccetera. Che si sente vuoto e stanco. Stamattina mi ha scritto un messaggio con cui mi chiedeva di comprare Il Manifesto per capire le sue ragioni. 
Io che non ho mai votato per un partito o chesso' altro e che non mi sognerei mai di votare per una qualsiasi costola della sinistra sono andato a comprare il suddetto quotidiano (che qui costa 3 franchi e 20, diciamo quasi 2 euro e 80) e ho compreso perfettamente.
Mi è bastata la foto di copertina e pagina 2 e 3. 
Il mio amico non si appella all'unità o robe del genere.
Si lamentava della mancanza di speranza e fiducia, di credibilità dei programmi, eccetera, eccetera.
Ecco, onestamente nel 2017 (lasciamo stare Renzi e i suoi accoliti) chi puo' mai avere fiducia e riempirsi il cuore con Civati, Montanari, Fratoianni, Boldrini, Grasso, D'Alema, Falcone, D'Attorre, Acerbo, Fava e compagnia bella?
Quando mi son messo a leggere l'intervista di Civati mi è venuta voglia di drogarmi immediatamente.

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lunedì 13 novembre 2017

Giulio Meotti - Philippe Muray

Pochi giorni fa scrivevo che leggo ormai pochissime recensioni e che faccio pochissime eccezioni. Una di queste eccezioni é uno scritto che Giulio Meotti ha dedicato a Philippe Muray su Il Foglio di sabato scorso.

Ve lo trascrivo integralmente e questo libro di Murray é veramente bello.


(L'ho trascritto per tenere in allenamento le mie dita doloranti e abituate a tenere per ore a stringere e stringere)

Ecco il pezzo:

"La banalità del bene e la dittatura del consenso molle.
Il volto terribile della “città del cuore”
Philippe Muray a Stanford nel 1983 vide la morte del sesso, della letteratura, del dissenso, dell'arte e di ogni differenza culturale. Una “crisi iperglicemica di buoni sentimenti” che sarebbe dilagata in tutto l'occidente.

È il 1983 quando Philippe Muray viene chiamato dal grande antropologo René Girard a insegnare letteratura francese per un semestre a Stanford. Muray stava già lavorando a quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, “Le XIX siècle à travers les ages”. Fu in quell'università, tra le più quotate d'America, che per la prima volta si esclusero dai programmi Dante, Omero, Platone, Aristotele, Shakespeare e gli altri grandi protagonisti della cultura occidentale. Il motivo: secondo il comitato di professori e studenti che stabilì i piani di studio, tutti questi classici erano “razzisti, sessisti, reazionari, repressivi”, e nei programmi del primo corso andavano sostituiti da esponenti della cultura del Terzo mondo, delle minoranze americane di colore, delle donne e della contestazione, anche se molto meno noti. Allan Bloom, il docente di Chicago che aveva scritto il bestseller “La chiusura della mente americana”, disse che così si stava distruggendo l'insegnamento della logica e della tolleranza. Amanda Kempo, che guidava l'Associazione degli studenti afroamericani, rispose che il messaggio dei vecchi programmi è uno solo: “Nigger go home”, torna a casa negro, perchè “esalta il maschio bianco occidentale e mira a conservargli il dominio sui non-bianchi, sulle donne e sul Terzo mondo”. Così. “Controrivoluzione e rivolta” di Herman Marcuse prese il posto di Cicerone, Goethe, Cervantes e Stuart Mill.
“Davanti a noi un eterno Mattino Magico”, scriverà Philippe Muray, che in quei mesi ascoltava e osservava, allibito, prendendo nota. “Qualcosa di strano e terribile, che non aveva ancora nome, si stava rivelando”, dirà lo studioso francese in seguito. “In un paese che non badava né alla dialettica né ai ricordi, per il bene dell'umanità si compiva la temibile unione dell'ottimismo progressista e degli spiritualismi più sfrenati. Dietro ai volti ostinatamente sorridenti che si vedevano in giro incombeva la minaccia. Una specie di religione stava venendo alla luce sotto gli auspici dell'Armonia, irrefutabile più delle religioni antiche e provvista delle risorse definitive, quelle farsi per accettare ovunque. Niente di ciò che aveva davanti agli occhi esisteva ancora altrove”.
Muray è scomparso nel 2006 a sessant'anni e non ha fatto in tempo a vedere che quello che allora aveva davanti agli occhi in nuce sarebbe dilagato in tutto l'Occidente. Il grande wellness occidentale. Il Mondo Nuovo dei puritani. Però Muray nel 1993 fece in tempo a consegnare in libreria il suo saggio più corrosivo e importante, “L'empire du bien”, tradotto adesso in italiano da Mimesis.
C'è tutto in quel libro, il culto dell'infanzia, la lotta per l'uguaglianza trasformata in imperativo paranoico e censorio, le isteriche rivendicazioni di giustizia che diventano sistemi persecutori, le richieste ossessive di protezione e “safe space”, i moralismi, la giustizia che corre sulla bocca di tutti, il puerilismo e le grandi guerre che una società buona e giuste deve vincere (razzismo, sessismo, omofobia).
Muray è stato il primo e il migliore dei saggisti francesi anti-moderni, il più elegante e allegro. I suoi bersagli erano numerosi, dai bobo alla femminilizzazione, dallo spettacolo della buona coscienza alla fluidità culturale, e poi ancora la miscela di generi e l'illusione di aver sradicato il male.
“Nel nostro Paese delle Meraviglie il Bene non ha semplicemente nascosto il Male, ma ha addirittura vietato che il Male venga scritto, e che sia quindi sentito o visto. Orwell si è sbagliato di poco. Le tinte drammatiche della sua profezia gli hanno fatto mancare il bersaglio: il film-catastrofe del futuro ha tinte rosa pastello”.
Creatore di neologismi insuperati – il più famoso è l'Homo festivus – Muray era virtuoso, aggressivo, metteva a disagio con la sua malizia rabelaisiana. Il mondo che professava di prendere in giro lo aveva ribattezzato “Cordicopolis”, la città del cuore. Un “luminoso degenerare”, lo chiamava, in cui tutto si tiene. “La famiglia, le coppie, la felicità, i diritti dell'uomo,  la 'cultura adolescenziale” degli hooligans, il business, la fedeltà e la tenerezza, tutti insieme appassionatamente, i padroni, le leggi di mercato ben temperate dalla dittatura della solidarietà, l'esercito, la carità, i figli voluti e rivoluti, i neoliceali che si credono yuppies, l'erotismo piccolo piccolo, la pubblicità cosmica, gli zulù che chiedono solo di essere riconosciuti. Tutti laccati, tutti leccati, lisciati, il Meglio del Meglio si diffonde, l'Eufemismo magnificato nel peggiore dei mondi migliori divenuto spaventosamente possibile”.
Muray si era formato come traduttore di scrittori anglosassoni (London, Melville, Kipling...) e aveva studiato lettere a Parigi. Uno spirito legato alla tradizione controrivoluzionaria di Joseph de Maistre e Leon Bloy, un novello Karl Kraus, l'apocalittico beffardo. In tanti si diranno allievi di Muray, Alain Finkielkraut, Jean Baudrillard e Michel Houellebecq, che lo considera uno dei dei più grandi geni letterari francesi del XX secolo.
Proprio come uno dei suoi oggetti di studio, Louis Ferdinand Céline, cui dedicò un celebre saggio che teneva dentro tutto, genio letterario e antisemitismo, Philippe Muray è riuscito a illuminare il dolce disastro contemporaneo, dove il “festival” è legge, “il figlio naturale di Debord e del web”. Alla fine era diventato il portavoce del movimento anti-giustizialista con la sua denuncia della correttezza politica e dell'infantilizzazione dei consumatori, ridotti a una “passività euforica” in un “asilo egemonico”. Era politicamente inclassificabile. Muray, analizzava le contraddizioni della società odierna senza proporre ritiri o rivoluzioni. Un vagabondo ideologico, un moralista per il quale il pensiero critico doveva essere un'arte. Quello che Muray intuì a Stanford era la tirannia dei buoni sentimenti. Nacque allora il “millennio in crisi iperglicemica”. Il mondo come fabbrica di piaceri e diritti. “Il Bene è la risposta anticipata alle domande che abbiamo smesso di farci. Piovono benedizioni da tutti i cieli, gli dei sono caduti sulla terra, la seduta è tolta, olé! Non esistono alternative alla democrazia, alla coppia, ai diritti dell'uomo”. Un millenarismo che inghiotte tutto. “Ascoltate il vostro corpo, andate in palestra, tonificatevi. Cose buone dal mondo. Scoprite i benefici dell'acquagym, lottate tra le canne di bambù, abbattete il tempio Inca di cartapesta, anche voi potete entrare nel Regno Incantato”.
L'America che vide Muray divenne il terreno fertile per una “Nuova Bontà” che “guida il popolo contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico d'avorio e di pellicce, contro i responsabili delle piogge acide, la xenofobia, l'inquinamento, la devastazione del paesaggio, il tabagismo, l'Antartide, i pericoli del colesterolo, l'Aids, il cancro eccetera eccetera eccetera”.
L'epoca dello zucchero senza zucchero, delle guerre senza guerra, del tè senza teina, del “dibattito in cui tutti sono d'accordo per dirsi che in fondo sì, domani sarà meglio di ieri”.
Una storia che galoppa in cui “ci trattano con i guanti bianchi, ci cullano, ci proteggono dai pericoli. Un puro fatto grezzo, brutale, ci capitasse per davvero, ci metterebbe ko in due secondi. Il minimo evento è preannunciato, segnalato, telegrafato, con tanto anticipo che poi, quando succede veramente, sembra la commemorazione di se stesso”.
Questo bene assoluto e insindacabile Muray lo definisce “la vecchiaia del mondo”. “Non basta essere contro la morte, l'apartheid, il cancro, gli incendi boschivi; non basta volere la tolleranza, il cosmopolitismo, le feste dei popoli e il dialogo tra le culture; non basta condividere le sofferenze degli etiopi, dei nuovi poveri, degli affamati del Sahel. No, non è sufficiente. La cosa fondamentale è dirlo e ridirlo, ripeterlo mille volte al giorno”.
Viviamo in un'atmosfera di religiosità furiosa. “E non sto parlando della buona vecchia religione di una volta, perchè l'ateismo avanza, lo vediamo tutti, l'indifferenza si diffonde, le grandi fedi di un tempo (quelle sì che erano veramente folli e, in quanto tali, potevano giustificare la follia religiosa) sono sostanzialmente sparite. La nostra religione è ancora più delirante: la vera fede, oggi, è quella crede nello Spettacolo”.
I nuovi misericordiosi sono “i cantanti, gli attori, gli sportivi, i creativi della pubblicità, sono loro, lo sappiamo, i veri modelli del nuovo esercizio di apologetica spettacolare. Vi sbattono in faccia il loro entusiasmo senza colpo ferire, con così tanto trasporto, si lanciano con così tanto fervore contro la droga, contro la miopatia congenita, contro le alluvioni, contro la fame nel mondo, per i diritti dell'uomo, per salvaguardare l'esistenza dei curdi, e con toni così convincenti, partecipi, commossi, che anche voi avete la sensazione, nel vederli scagliare le loro frecce coraggiose in pertugi tanto inesplorati, anche voi credete, per un attimo, che quelle Cause le abbiano scoperte loro”.
Anche il linciaggio indossa abiti buoni, progressisti, giusti. “Buttati fuori dalla porta, gli antichi riflessi di odio e di esclusione rientrano in fretta dalla finestra per scagliarsi contro nuovi capri espiatori sempre più incontestabili”. Un esercito della virtù, dice Muray, che ricorda la “polizia religiosa” saudita che pattuglia le vie per far rispettare la sharia, “vigilare perchè i negozi rimangano chiusi durante le ore di preghiera e battere le donne che lasciano intravedere un centimetro di pelle. Forse succederà anche qui da noi, basta aspettare un pochino”.
Il consenso deve essere totale. “Il transessualismo di massa non è più un'utopia, anzi, è diventato la nostra realtà sostitutiva. Qual dolcissimo struggimento! Da una parte stanno le nozioni antipatiche: 'frontiere', 'mutilato'; dall'altra ci sta la 'trasgressione', concetto brioso e totalmente innocuo. Il tutto culmina naturalmente nella celebrazione dell'essere androgino, il paladino ideale, come è giusto, del nuove ben pensare”.
È anche la morte del sesso in un tempo che sembra celebrarlo in ogni momento. Una fata morgana. “Mai come ora invece impazza, e impazzerà sempre di più, la ricerca dell'asessuale. Abbiamo creduto al trionfo dell'erotismo, in forma scritta o filmata, semplicemente perché per un attimo ci è sembrato fruttuoso, redditizio. Oggi è bell'è che finita. Si torna alle cose serie. L'odio contro il sesso si perpetua cercando nuovi e feroci punti di appoggio”.
La “coppia” è il nuovo ideale. “Nei rapporti tra i sessi non c'è più alternativa alla coppia, ufficiale, di fatto, omo, etero, poco importa, purchè sia coppia. Nella sfera privata l'Aids ha giocato un ruolo simile a quello avuto dal crollo del Muro di Berlino in politica. Non c'è più scelta, né per l'individuale né per il collettivo. Basta scelte nel sociale, basta scelte nel privato. Finito anche lì. Si cali il sipario. Il nostro mondo è pieno di riunificazioni meno commentate, certo, e più discrete dello scioglimento della DDR, ma altrettanto traboccanti di strepitose novità per il futuro”.
Il dissenso è proibito. Si instaurano nuovi psicoreati. “Ci troviamo oggi in una situazione che ricorda – ma è mille volte peggio, è mille volte più inquietante – quella del Seicento, quando avere un'opinione propria, essere un individuo, mostrarsi come individuo costituiva la definizione stessa di eresia. La libertà di pensiero è sempre stata una malattia. Oggi, finalmente, possiamo dirci completamente guariti. Chi non declama il catechismo collettivo è additato come pazzo. Mai come oggi il gregge di coloro che guardano scorrere le immagini ha temuto che un minimo scarto, una variazione, potessero danneggiarlo. Mai come oggi il Bene è stato sinonimo di una condivisione così assoluta.”
Martella ogni giorno un solo messaggio “La cultura è buona e giusta, il cinema è vita, la poesia è amore, il teatro vi aspetta e la pittura ci riguarda tutti”. Il bambino è il nuovo idolo. “Pass-partout intoccabile, il martire di tutti i Telethon, il direttore successore di quello che più vi aggrada: del Popolo, della Morale, dei Costumi e della Religione! Ma anche di Dio stesso, perché no? L'erede universale. Il Grande Feticcio. Il Frustino di tutte le scudisciate. In suo nome si vietano le visualizzazioni in rete ogni volta che si vuol fare fuori qualcuno... Ah! Il Bambino! I bambini salveranno il mondo!”.
Censori e delatori, eccolo i nuovi inquisitori soft. “Il dispotismo del Consenso molle ha tutt'altre caratteristiche, ugualmente spaventose. La sua forza sta nell'essere quasi invisibile e al tempo stesso effuso, diffuso, senza vie d'uscita, senza alternativa, non c'è possibilità di guardarlo dall'esterno e magari accerchiarlo, o almeno colpirlo, obbligarlo a reagire e quindi a mostrarsi, in modo che riveli così la potenza e la vastità del suo impero tirannico. Il Consenso molle trova la propria legittimazione – e gli indici di ascolto ne danno prova quotidiana – nell'essere desiderato da tutti, da tutti considerato come estrema forma di protezione”.
Per proteggere l'Impero del bene, si deve “stoppare chiunque abbia la vaga idea di pronunciare qualche cosa di non allineato, di ermeticamente non consensuale, di appena appena non identificato” e rientra in questa categoria “ogni idea che dal collettivo non parta per poi tornarvi immediatamente”. Si tratta di un immenso progetto terapeutico che consiste nel “trasformare la maggior parte di noi in militanti della Virtù, contro una minoranza di tardivi rappresentanti provvisori del Vizio che verranno fatti fuori gradualmente”.
E l'impero del bene ha i suoi tartufi. “È socio fondatore di varie associazioni NO a qualcosa, CONTRO qualcos'altro, ha frequentato le migliori università e scuole specializzate, è socialista moderato, o progressiste scettico, o centrista del terzo tipo”.
È un nichilismo di tipo nuovo. “Quello di un tempo aveva foggia rossonera; oggi è rosa pallido, pastello tenue dal cuore d'oro, tarocchi New Age, yogurt bifidus, karma, muesli, sviluppo sostenibile delle energie positive, astrologia, esoterico-rilassante, occultico-rigenerante”. Il consenso si è liberato dal comunismo semplicemente realizzandolo. “Non è un'ironia della sorte che l'ignobile concetto americano di Politically Correct venga abbreviato Pc dai media. La collettivizzazione si è infine compiuta, tra musica e colori”. Tutto e tutti devono sciogliersi, così che “lacrime, amore, passione, generosità ed effusioni annunciano l'imminenza di una nuova Età dell'oro”.
Il Pc uscì da Stanford per estendersi a macchia d'olio su tutta la cultura occidentale, accademie, libri, tv, giornali. “I cervelli sono kolchoz. L'Impero del Bene ha attinto a piene mani da quell'antica utopia: burocrazia, delazione, esaltazione appassionata della giovinezza, smaterializzazione del pensiero, abolizione dello spirito critico, addestramento osceno delle masse, annientamento della Storia a forza di attualizzazioni, appello al Kitsch al sentimento contro la ragione, odio del passato, uniformazione degli stili di vita.”
Il trionfo dell'individualismo è una mera illusione, “una delle tante amene verità giornalistico-sociologiche di consolazione, quelle che ci sciroppano quotidianamente in un mondo in cui ogni singolarità, ogni particolarità è in via di estinzione”.
Sta morendo la grande letteratura: “Da sempre, la letteratura è fatta, almeno in linea di principio, per demolire le credenze del mondo. Se esistesse ancora la letteratura, se ci fosse ancora scrittori, anzichè “autori” , anzichè “libri”, forse ci si potrebbe divertire. Ogni opera di un certo respiro è sempre stata impavidamente antimoralistica, contro qualsiasi pastorale”. Oggi gli scrittori sono tutti “velati, sorridenti, zuccherosi”.
Una letteratura “addolcita, climatizzata, spianata, livellata pure lei, schiava della comunicazione, denicotinizzata, allineata, decatramizzata, aizzata a dovere”. Ma muore anche l'arte del postmoderno: “L'artista, oggi – che sia minimalista, concettuale, o estremo contemporaneo – sopravvive sempre in quanto specie protetta, residuo filantropico”.
Hannah Arendt immortalò la banalità del male. Philippe Murray ci ha regalato la sua evoluzione: la banalità del bene. “Questa società non partorirà che uomini muti o oppositori”. Non ci resta che allinearci.
“Il Paradiso è adesso!”.


Mentre lo trascrivevo ho ascoltato questo album:


sabato 11 novembre 2017

Sabato sera


Pisa Book Festival, Book City, Festival dell'artista incompreso, dello scrittore esordiente, presentazioni, reading, premio letterario di Lecco, eccetera, eccetera.
Alla fiera di Mendrisio ci sono i maiali, li uccideranno e ne faranno salami. I visitatori mangiano, si strauccidono di grassi, alcolici, accendono candele nella chiesa del santo, si divertono al luna park, toccano le gomme dei trattori e si leccano le labbra davanti alla nuova motofalciatrice, assaggiano formaggi e arrosticini, bevono Merlot e vincono peluche al tiro a segno. 
Tutto magari molto volgare, paesano, inaccettabilmente sanguinario per i vegetariani/vegani/schizzinosi come me, molto fintamente “storico”, ma continuo a capire e rispettare chi decide di trascorrere una giornata in una fiera di questo genere coi propri figli, amici, parenti (e fra poco in città arriva pure il circo e non mi piace il circo ma capisco chi lo ama e ci porta i propri figli), chi se ne va via con un palloncino o una confezione di miele biologico ma non ho mai capito, vi giuro, perchè uno debba buttare via del tempo a frequentare festival/saloni letterari/culturali. 
Ci sono stato anche io, forse tre/quattro volte al Salone di Torino e ben due volte di queste solo per incontrare due carissimi amici e i miei editori. 
All'ultima presentazione di un libro, ormai lontana quasi un decennio, forse anche di piu', me ne sono andato prima che l'autore arrivasse.
Mentre tornavo in treno la sensazione che mi trascinavo addosso da tutti quegli stand/chiacchiericci/biglietterie/autori/giornalisti/editori é sempre stata quella di essermi sporcata l'anima.
Rientrato in casa ho sempre sentito il bisogno di farmi una doccia, bere qualcosa e fare una lunga camminata per sentirmi di nuovo vivo.

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Non m'interessa scrivere di Ostia, Casa Pound, Spada e bla bla bla ma di una piccola cosa: i pacchi distribuiti e l'ipocrisia di chi critica queste mobilitazioni. Sono telegrafico volutamente. Perchè chiunque si sia interessato di politica, l'abbia vissuta dentro o da vicino, abbia seguito una qualsiasi elezione e un qualunque partito politico sa di cosa sto parlando. Ristabilite alcune coordinate poi si può cominciare a parlare approfonditamente di questo e quell'altro.
E comunque ho riguardato Di Stefano in tv e sorrido a come avrebbero potuto commentare questa comparsata gente come Drieu o Brasillach e cosa avrebbero pensato dei giornalisti, del conduttore, del pubblico. Non oso immaginare che parole di fuoco avrebbe usato Céline. 
Di sicuro, nel 2017 sentir parlare ancora del prefetto Mori e di lavori forzati in Cirenaica mi lascia praticamente incapace di proferire qualunque pensiero logico perché non ce ne sono.
Meglio dedicarsi a qualche sitcom americana.

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Di sicuro cercherò di andare a vedere questa mostra:



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Ieri sera ho provato a guardare Svezia-Italia. Mi sono addormentato dopo pochi minuti, mi ha detto la mia compagna che mi ha lasciato giustamente riposare mentre lei ascoltava musica. Quando mi sono svegliato c'era uno che gridava: “In culo, in culo!”.

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Quanto lo sto ascoltando questo disco, non posso smettere di ripetere che è uno di quei dischi affascinanti che mi prende la mattina presto:


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venerdì 10 novembre 2017

Buddhismo e The Lost Woman

Se c'è qualcosa che mi hanno insegnato il Buddhismo (semplifico molto, anche perché non sono buddhista), i libri che ho letto su questo argomento, gli incontri che ho avuto, è stato quello di vivere le vere situazioni di conflitto lavorative lasciandomele scorrere addosso, senza per questo essere menefreghista. 
Praticamente mi ha insegnato a non far prevalere quella voce dentro di me che mi farebbe uccidere, intendo veramente uccidere, prendere a sprangate, lavare di olio bollente la persona davanti a me, prenderla a testate, mettermi a urlare e piangere, mollare tutto e andarmene. 
Cercare la violenza fine a se stessa e la mia autodistruzione totale.
Riesco da qualche tempo, mediamente (e sto semplificando nuovamente), a gestire questo tipo di situazioni e a farle evaporare entrando in una specie di stato sonnolente dove non sento piu' nulla, mi svuoto, elimino le scorie e respiro.
Questo pero' funziona per un tempo limitato.
Molto limitato.
Tipo adesso, che la voglia di spaccare la faccia a questo stronzo è risalita appena sono tornato a casa e ho già bevuto due birre senza accorgermene e mi chiedo perché sono stato zitto, perché gli ho permesso di comportarsi in quel modo, di alzare la voce, di non concedermi nessun tipo di contraddittorio se non le sue pillole di saggezza da uomo che sa tutto del mondo, di considerarmi un perfetto coglione e schifoso uomo delle pulizie anche se tutto fatto con sorrisini e leccate di culo.
E allora vuol dire che non ci ho capito un cazzo del Buddhismo e che forse tutte le religioni/discipline sono in fondo delle grandi stronzate, anche se so che non è vero e che la mia parte buia, violenta, intransigente, autodistruttiva è dentro di me, come un peso, una pianta che fa frutti e un'amica dentro cui specchiarmi e con cui fare i conti tutti i sacrosanti giorni da quando sono nato.
E quando sto cosi' male come oggi e tantissimi altri giorni della mia vita e sorrido solo perché bisogna sorridere, tirare avanti, finire la giornata, accontentare tutti, tutti quelli che vorrebbero vederti triste o felice, addolorato e resuscitato, sorridente e depresso, accendo su Youtube per guardare questo video e piango.
Non ho mai pensato che le lacrime servano a purificarmi.
Piango perché quando sto male piango o mi chiudo nel mutismo piu' assoluto o fingo che tutto vada bene.