Spero che la lunga intervista che ne è scaturita sia di vostro interesse.
Ciao Carlomanno, partirei intanto col chiederti, a distanza di qualche mese dalla pubblicazione de "Il Sole dell'Impero" (Idrovolante Edizioni) che bilancio trai del tuo romanzo, dell'accoglienza ricevuta, delle presentazioni. Cosa è andato, quali sono i dubbi, e cosa invece magari non è andato?
Beh ad oggi devo dire che il bilancio è piuttosto positivo. L’accoglienza è stata migliore di quanto abbia mai sperato quando lo ho proposto per la pubblicazione, a pochi giorni dall’uscita c’è stato anche un piccolo periodo di tempo, ai primi di gennaio, in cui il libro è stato difficile da trovare proprio per esaurimento copie della prima infornata di stampa. Sicuramente c’è da lavorare per farlo conoscere maggiormente fuori dal circuito di nicchia, tramite presentazioni in posti mirati ma anche tramite trovate di marketing particolari a cui devo ancora pensare. Comunque c’è tempo, il libro è uscito da appena due mesi e tempo per lavorare su questo aspetto ce n’è.
Facciamo un passo indietro e ti chiedo, in maniera schietta: non hai mai pensato che stavi scrivendo un romanzo un po' fuori dal tempo, che facilmente sarebbe stato etichettato come un romanzo revanchista e, diciamola tutta, fascista? Esclusivamente rivolto solo al tuo ambiente di riferimento?
Il rischio c’è sempre anche se per etichettarlo in questo modo devi per forza di cose partire da un pregiudizio o da cattiva fede, o da entrambe. Se avessi voluto fare una cosa del genere avrei fatto la classica ucronia sul ventennio o avrei creato una brutta copia della trilogia di Farneti – che comunque è stata un successo editoriale di non poco conto. Il fatto che questa ucronia sia ambientata negli anni ’20 e ’30 è stata principalmente una scelta “estetica” visto che amo visceralmente abiti, costumi, musiche, architettura, arte, narrativa e tecnologia di quegli anni. È stato più un omaggio alle storie adventure-pulp tipiche di quegli anni e che hanno ispirato tutto un filone cinematografico che va da Indiana Jones a Sky Captain e Rocketeer che sono film che adoro in modo maniacale. Ma è del tutto “fuori dal tempo” come dici tu proprio perché è metastorica, avrei potuto ambientarla in qualunque altro periodo storico proprio per l’universalità del messaggio che ho voluto dare. Sicuramente ci sono richiami alla storia e alla politica dei “veri” anni ’20 e ’30 ma ce ne sono anche ad altri anni successivi e contemporanei, così come ce ne sono alla storia più antica. Quindi certo, il rischio etichettatura c’è ma sono sicuro che questo libro possa piacere o per lo meno interessare anche a chi di un certo ambiente non ha il minimo interesse.
Come è nata l'idea di questo romanzo? E visto che sono molto curioso di questo aspetto, come scrive Carlomanno Adinolfi? Sei uno scrittore metodico, confusionario, notturno, mattiniero, costante? Insomma, che tipo di scrittore sei?
L’idea di scrivere qualcosa in realtà c’è da molto tempo. Sono da sempre un divoratore di romanzi, di fumetti, di film e serie tv ma ho sempre amato anche scrivere: a vent’anni scrissi per gioco un racconto con un mio amico, poi subito dopo è arrivato il racconto a puntate Black Out scritto per la fanzine Disturbo 451 e poi pubblicato su Letteratura e Tradizione, più altri scritti per Occidentale e Orion in cui invece di fare il solito articolo ho preferito usare la mini-narrativa per veicolare un messaggio. Mi sono accorto da subito che la “scrittura creativa” mi dava molta più soddisfazione, in più potevo dar sfogo alla fantasia che ho sempre coltivato fin da piccolo grazie a mio padre con cui inventavo grandi storie con i soldatini o anche interi giochi di ruolo o da tavolo con regole tutte nostre. Quindi in un momento con tanto, troppo tempo libero tutto all’improvviso (cassa integrazione a lavoro, per fortuna durata poco) ho pensato: perché non scrivere qualcosa? E allora ho cominciato a pensare a una storia che sarebbe piaciuta da leggere a me per primo: quindi come dicevo prima retro-futurismo anni ’30, adventure-pulp con fanta archeologia e thriller da spy story, ovviamente elementi mitico-simbolici e poi piano piano ci ho inserito quasi tutti gli argomenti che amo, dal Sacro Romano Impero al Giappone ai misteri egizi fino ai miti del Buddhismo mongolo.
Riguardo al Carlomanno scrittore, beh non esiste una risposta precisa. Non c’è stato un momento della giornata preferito, le idee e il flusso di parole arrivano quando arrivano, ci sono stati momenti in cui avevo ore a disposizione ma rimanevo davanti alla pagina che rimaneva vuota (per fortuna non si è mai riempita con “il mattino ha l’oro in bocca”…) mentre altri in cui in meno di un’ora avevo finito un intero capitolo. Sul metodico o confusionario… diciamo che una volta lanciato nella scrittura è molto difficile che torni indietro. Magari rivedo qualche periodo o qualche punto della trama, ma cancellare e riscrivere da capo anche solo una parte di capitolo è una cosa che proprio non mi viene.
Quali sono le fonti d'ispirazione de “Il Sole dell'Impero”? Su quali testi ti sei formato come lettore e quali sono invece le scoperte più recenti che apprezzi?
Le fonti di ispirazione sono davvero tantissime. Molte a dire il vero le hai anche colte nella tua recensione (tranne il Thomas Pynchon di “Against the Day” che, devo ammetterlo, prima di leggerlo da te non lo conoscevo affatto, ma mi sono informato e mi ha dannatamente incuriosito). C’è molta formazione da lettore di fumetti: da Tintin a Blake e Mortimer a La Lega degli Straordinari Gentlemen ai pulp magazine degli anni ’20 e ’30 a La Spada Selvaggia di Conan. Ma c’è anche formazione cinematografica e di serie tv: ai sopracitati Sky Captain, Indiana Jones, Rocketeer si aggiungono i film di Nolan, del primo Proyas, di Niccol, di Snyder, di Zwick e John Boorman. L’essere un fanatico di serie tv mi ha aiutato a “costruire” i capitoli che ho proprio pensato come episodi di una mini serie, quindi il più possibile compatti, coesi, con una propria storia e completezza interna ma che finiscano anche con il colpo di scena e il classico cliffhanger che faccia venire una voglia matta di andare avanti. Poi anche stilisticamente ho cercato il più possibile di descrivere le scene e i dialoghi in modo che il lettore possa “visualizzarli” mentre li legge, che possa immaginarli quasi come se stesse vedendo un film.
Come lettore, oltre a Guénon, Evola, Pound, Dumézil, Ricci, Nietzsche e i classici per quanto riguarda la parte “filosofica”, mi sono “formato” molto sui romanzi di Howard, Lovecraft, Asimov, Michael Ende, Burroghs, Haggard, Bradbury, Ballard, ovviamente Tolkien. Anche Stephen King anche se con lui ho un rapporto di amore odio che spesso sconfina più nell’odio. Tra le scoperte più recenti posso citare l’oramai inflazionato George Martin ma anche Neil Gaiman e Sergej Luk’janenko.
Indubbiamente tutto il tuo romanzo è percorso da filosofia, religione, spiritualità. Come possono coesistere oggi queste tre parole?
Francamente non vedo come possano non coesistere. Tutte le volte che sento la frase “quella è una filosofia non una religione”, magari detta con l’enfasi di chi vuole far vedere di aver capito tutto della vita, mi cadono le braccia. Viviamo nel supermarket del sacro, in cui la “religione” è solo la forma esteriore che ognuno si sceglie a seconda di quello che trova sullo scaffale come medicina per sentirsi meglio, la “filosofia” è solo l’aspetto razionale che troppo spesso diventa vuoto moralismo e la “spiritualità” è una cosa strana da new age che quasi mai riguarda il sacro ma piuttosto un materialismo mascherato da “sentirsi in armonia con l’energia”, e il tutto ovviamente è diviso in compartimenti stagni. Questo è il classico approccio dell’uomo atomizzato che vive in un mondo totalmente scisso da ogni dimensione trascendente, che non sente più quell’unità con un mondo superiore con cui deve curare i legami e i rapporti, che deve essere il principio e il faro che guida verso una via superiore e verticale. Manca del tutto il concetto di un mondo armonico e manca soprattutto una visione del mondo che sia totale, che abbracci ogni aspetto, proprio perché radicato in un Principio superiore. Se si avesse, religione filosofia e spiritualità non solo coesisterebbero ma non sarebbero altro che tre step diversi della vita stessa.
Lo so che te l'ha già chiesto Adriano Scianca, ma che rapporto hai con “Il Signore degli Anelli”? Una differenza che ho riscontrato è che nel tuo romanzo la risoluzione della storia è completamente positiva.
Io ho un ottimo rapporto con Tolkien ma un pessimo rapporto con i cosiddetti tolkieniani. Tolkien ha fatto una grandissima opera di mitopoiesi, ha condensato un mito in un mondo di romanzi, di personaggi e di storie. Purtroppo in molti lo hanno invece scambiato per un narratore di mondi nostalgici nei quali fuggire quando la realtà è troppo difficile da affrontare e così abbiamo avuto due decenni abbondanti di masturbazioni mentali intellettualistiche condite con elfi e fate, in cui il pericolo di essere corrotti dall’Anello è stato totalmente travisato ed è diventato la scusa per estraniarsi dal mondo perché “l’ombra è troppo forte” o perché “combattere contro di essa non è possibile”. Nessuna di queste persone si è mai resa conto che Il Signore degli Anelli è una storia di una battaglia, di una presa di coscienza della presenza e della forza di un nemico e al contempo la scelta di combatterlo proprio perché fuggire da esso non è mai preso in considerazione.
Quanto al mio romanzo, al di là della distanza abissale che ovviamente mi separa da Tolkien, premetto che tanto dal punto di vista stilistico quanto dal punto di vista di genere e di storia, Il Sole dell’Impero con Il Signore degli Anelli c’entra proprio poco. C’è una parte in cui parlo di “un potere che vuole rinchiudere il mondo nel suo anello” che è chiaramente ispirato proprio al senso dell’Anello che rinchiude, che deforma, che rende ombra e quindi monodimensionale, orizzontale, sbarrando qualsiasi apertura che possa portare a una trascendenza. E forse ci sono qua e là altri riferimenti più o meno consapevoli, ma ripeto: il genere de Il Sole dell’Impero è totalmente differente.
Nel romanzo si respira la tua formazione “scientifica”. Come si coniugano formazione scientifica e narrazione? Massimiliano Parente, rimarca sempre come sia impossibile oggi per uno scrittore non relazionarsi col mondo della scienza. Secondo te viene insegnata poca scienza nelle scuole di oggi?
La mia formazione è scientifica solo per quanto riguarda l’università – sono laureato in ingegneria elettronica – ma in realtà provengo da una formazione classica al liceo. Sono appassionato di tecnologia, di scienza e soprattutto di fisica, dico sempre che una delle lampadine che hanno dato luce a Il Sole dell’Impero si è accesa leggendo L’Universo Elegante di Brian Greene, un saggio su fisica quantistica e teoria delle stringhe. Ma è stato grazie alla mia formazione classica che leggendo un libro di fisica ho immaginato – o colto – le relazioni tra fisica e metafisica che ho inserito nel romanzo. A scuola non so se attualmente venga insegnata poca scienza, io mi sono diplomato 16 anni fa e nel frattempo si sono succeduti troppi governi e troppe riforme che hanno cambiato molte cose. Quello che noto, al contrario, è invece la volontà di demolire proprio la cultura classica. Chiamatemi complottista ma la vedo come un’ulteriore battaglia per distruggere le fondamenta dell’identità europea che molti nostri politici evidentemente odiano così tanto.
Sul fatto che sia impossibile oggi per uno scrittore non relazionarsi col mondo della scienza, è ovvio che se devi scrivere di un mondo in cui la tecnologia è dominante, almeno una infarinatura sulla scienza che le ha dato vita serve. Anche se si scrive di fantascienza, in cui si inventano tecnologie nuove, avere delle basi scientifiche serve, dà più solidità al tutto.
Nel romanzo i riferimenti sono innumerevoli. Per esempio ho respirato le parole di Berto Ricci e prendo l'occasione per chiederti se ti va di parlarci un po' di lui e spiegarli per quale motivo lo reputi un uomo da riscoprire.
Berto Ricci è uno dei pensatori che reputo più importanti nella mia formazione. Il suo scritto “categoria spirituale e categoria sociale” all’interno di Processo alla Borghesia è di una attualità sconvolgente, il suo insegnamento a non farsi sconfiggere dallo spirito borghese inteso come grettitudine, individualismo egoista, il cercar la comodità ai danni del sacrificio, il preferire il divano all’azione che possa elevare se stessi e gli altri è da riscoprire oggi più di quanto lo fosse nel 1939. Ma anche il suo concetto di Impero come assoluto politico, come idea superiore e verticale che valorizzi le diversità (etniche, religiose, nazionali eccetera) per armonizzarle e creare una pluralità organica che vada al di là dei singoli nazionalismi o regionalismi chiusi ma che al contempo sia l’esatto contrario di un appiattimento che nega identità e diversità in favore di un deserto grigio e amorfo. E soprattutto il suo polemismo attivo e dinamico che ad ogni traguardo raggiunto gli faceva già pensare al prossimo in vista, proprio per evitare la staticità e il marciume, è qualcosa che è e deve essere sempre attuale.
Altro grande personaggio che fai rivivere nel tuo romanzo è quello del Barone Von Ungern. Lui è un uomo che ha segnato la mia esistenza quando l'ho incontrato. Ma oggi cos'ha da dire il Barone?
Il Barone è l’emblema del cavaliere che non appartiene al suo tempo e che cerca in un Principio che va al di là del tempo, quindi non nel passato o in un utopico futuro, le proprie radici. Molti pensano che Ungern Khan fosse solo un pazzo che cercava di restaurare un mondo antico di fronte ai cambiamenti e alle rivoluzioni ma ovviamente non fu così. Lo stesso Ungern si rifiutò di combattere insieme ai reazionari zaristi, lui non ha mai voluto “restaurare” un regime decaduto. La sua era invece una rivoluzione che era fuori tempo non perché legata al vecchio mondo ma proprio perché, paradossalmente, troppo in anticipo sui tempi.
Impossibile, leggendoti, non riflettere sull'oggi. Quali sono i nemici chiari e quelli invece più oscuri, nascosti, contro cui si combatte ne “Il Sole dell'Impero” e nella vita reale?
Non ho scelto casualmente un “demone del deserto” come nemico più subdolo all’interno del romanzo. “Il deserto cresce; guai a chi in sè cela deserti”, con il deserto che rappresenta proprio quella forza che uniforma, che abbatte le altezze, che rende tutto piatto e uguale fino all’orizzonte dopo aver inaridito tutte le fonti. Di fatto è lo stesso nemico di cui parla Berto Ricci, tanto dentro di noi quanto fuori di noi. E si evidenzia nei vari modi a cui siamo abituati: nel deserto spirituale, nel deserto identitario, nel deserto senza confini che entrambi gli internazionalismi, quello cosiddetto no global e il suo specchio ultraliberista e mondialista, ritengono il mondo perfetto.
Sei un uomo di CasaPound e nel romanzo i riferimenti alla Tartaruga sono evidenti. Come la Tartaruga si inserisce nella narrazione? E come sta CasaPound? Cosa ne pensi dell'attuale dibattito sui movimenti sovranisti? E quale Europa si prefigura? Io, personalmente, continuo a pensare all'Europa, ovviamente diversa dall'UE, dalle regole dettate dalla Finanza.
Il riferimento alla Tartaruga è avvenuto quasi per caso nel momento in cui ho deciso di inserire l’Amduat, uno dei testi sacri egizi, all’interno del romanzo. Nel testo si parla della costellazione della Tartaruga come simbolo di rinascita, quando l’ho letto mi è scappato un sorriso pensando che forse “il caso non esiste mai”.
CasaPound sta benissimo ed è tuttora in crescita, militanti e tesserati continuano ad aumentare e ogni mese si aprono nuove sedi in tutta Italia. Credo siamo l’unico movimento italiano che conta cento sedi in tutta la nazione.
L’attuale dibattito sui movimenti sedicenti sovranisti mi lascia alquanto indifferente quando non mi lascia infastidito. Il concetto di Sovranità dovrebbe presupporre la ripresa e la consapevolezza di una identità nazionale ed europea, una visione organica di Popolo, Stato e Nazione che possa integrarsi un concetto superiore di Europa, una visione del mondo completa che ricada sulla politica interna, estera, economica, sociale. Vedere le comparse ridicole della politica di oggi che parlano di “sovranismo” senza avere neanche un’idea di Italia, figuriamoci di Europa, che fanno gli strilloni volgari per far vedere che sono matti ma poi quando dovrebbero prendere davvero posizioni radicali e rivoluzionarie si nascondono dietro alle regole burocratiche e alle regole politicanti del peggior partito liberale è solo nauseante. Sono figli del pensiero debole, e da deboli cercano solo di far finta di essere forti con strilli e retorica senza alcuna base politica, ideale ma anche umana.
Per quanto riguarda l’Europa, che non è la UE che è solo una burocrazia finanziaria, non potrà mai esistere in quanto tale se non come unità e pluralità delle singole identità nazionali con un’unica visione e un unico destino legati intorno ad una identità più grande, quella Europea, che armonizza e valorizza le singole identità. Come punto di partenza si dovrebbe partire dal video “Né Lampedusa né Bruxelles, essere Europeo” realizzato dall’Institut Iliade.
La Roma di oggi, vista da occhi distanti, è una città in decadenza totale. Abbandonata e vilipesa. Nel tuo romanzo Roma è una città futuristica, bella, capace di rinnovarsi, di trasformarsi. Ti chiedo: come può risorgere Roma? Consapevoli delle complessità di una metropoli, quando Roma saprà rinnovarsi riuscendo a far coesistere la Storia e l'Oggi?
La Roma di oggi vista da occhi vicini è messa ancora peggio. Negli ultimi cinque anni ha subito un tracollo che l’ha resa ancor peggiore di quanto già non fosse: una città dominata dalla puzza di immondizia accumulata, dei roghi tossici, con periferie abbandonate all’isolamento e al degrado, parchi verdi diventati bivacchi abusivi di clandestini – pardon, “richiedenti asilo” – con scheletri di palazzi degni di uno scenario apocalittico da Kenshiro. Difficile chiedere quando Roma potrà tornare ad essere Roma. Credo che finché non si tornerà a vivere un legame profondo con Roma come Idea Universale saremo condannati ad essere la città della burocrazia parassita, della pigrizia borghese, della corruzione politica di cui il degrado attuale non è altro che la muffa che si manifesta.
Chiudo chiedendoti della tua libreria. Che senso ha oggi una libreria? Secondo la tua esperienza, quanto e come si legge?
S
pecifico che La Testa di Ferro non è la mia libreria, è una associazione culturale di cui io sono il presidente ma è un ruolo da statuto, a portarla avanti ci sono tanti ragazzi che fanno molto più di me. Oggi purtroppo si legge pochissimo, ho letto statistiche che fanno rabbrividire sul numero di libri letti in media ogni anno dagli italiani. “Non ho tempo” è la scusa più usata ma Francesco Giubilei, uno dei responsabili di Idrovolante edizioni (l’editore de Il Sole dell’Impero) ha fatto giustamente notare che il tempo per stare ore davanti al telefonino c’è, quindi è solo una questione di pigrizia mentale oltre che fisica. Una libreria oggi ha quindi un senso quasi rivoluzionario, soprattutto una libreria come La Testa di Ferro che non è un supermercato di libri da autogrill ma un posto con testi selezionati e mirati soprattutto alla formazione e alla cultura – nel senso originario, quello di coltivare, far crescere – dei più giovani. Diciamo che il nostro è un po’ il ruolo degli uomini-libro di Fahrenheit 451.
In chiusura, visto che lo chiedo sempre, cosa consigli come disco, film, libro? Dai, recenti, altrimenti mi danno sempre del vetusto rompicoglioni.
Potrei dire che consiglio 300 di Snyder come film, Identità Sacra di Adriano Scianca come libro e Morimondo degli ZetaZeroAlfa in uscita il 21 aprile come cd ma poi mi darebbero del propagandista. Quindi posso dire Interstellar di Nolan come film, Runaljod – Yggdrasil dei Wardruna come cd e La Meravigliosa Storia della Repubblica dei Briganti, di Claudio Fracassi, come libro.