“Scrivere é il 90% per me. L'altro 10% è aspettare di scrivere.” (Charles Bukowski)
Quando leggo un libro di Paolo Nori, in questo caso
“Le parole senza le cose” (Laterza) finisco sempre per perdermi. Cioè leggo una, due, tre pagine e mi metto a pensare ad alcune persone che ho incrociato nella mia vita, a ricordi del passato, ai miei nonni, ai palazzi dove ho vissuto fino all'età adulta. Praticamente resto a guardare il muro bianco davanti alla scrivania e mi perdo. Anche se devo confessare che all'inizio Nori nemmeno mi era piaciuto poi ha cominciato a piacermi mentre moriva mia madre, leggevo i suoi libri in ospedale, seduto accanto al letto di mia madre, in sala d'attesa o a casa, leggevo, pensando sempre a lei. Per esempio quando leggo Nori a me viene in mente Andrea Brancolini, un amico che ho visto una sola volta nella mia vita, al matrimonio di un altro amico che ho visto una sola altra volta, Gianfranco Franchi (un matrimonio che definire epico é riduttivo e il Franchi ha scritto recentemente un bel pezzo "
Sulla perdita, sul vuoto e sulla visione. Quattro chiacchiere sulla piccola e media editoria") e penso a Andrea perché quando scrive i suoi pezzi (tipo
qui e
qui), i racconti e le poesie che ogni tanto mi manda anche lui mi porta altrove, non so nemmeno spiegarne i motivi, principalmente per la sua ricerca/attenzione sullo stile, sulla lingua (a proposito di lingua, mia sorella egittologa, che parla sette lingue, che legge abitualmente in greco antico e latino, che si diverte coi geroglifici, mi ha inviato un messaggio “Non so cos'é accaduto alla mia lingua, non so cos'ho mangiato o se mi ha punto qualche insetto ma ho la lingua gonfia e quando cerco di parlare in greco mi sembra di parlare in bulgaro e non so nemmeno come sia il bulgaro però di sicuro non é greco"), per come accosta alcuni termini, per come struttura le frasi. Perché mettere giù una frase non è semplice. Io per esempio non so quasi più parlare con le persone per il tanto tempo che trascorro in silenzio e quando parlo le parole dalla bocca mi escono quasi a caso e la gente che mi sta ascoltando non capisce assolutamente nulla di quello che sto dicendo. E per la vergogna finisco per parlare sempre meno. Perché poi quando parlo non sento mai il suono che ho nella testa. Come se le parole mi si fermassero fra i denti, fra le labbra e poi crollassero giù verso i piedi. Che poi passo ore e ore, giorni, settimane, anni a ricomporle, a custodirle, a disfarmene perché tenerle fra le mani mi procura solo tanto dolore. E poi quando leggo Nori a me viene in mene anche Iacovazzo, che viveva insieme alla sua famiglia all'ultimo piano del palazzo dove sono cresciuto. Di lavoro faceva il rigattiere ma i soldi a casa li portava la moglie. A lui interessavano Maradona, Luca Fusi, Tutto il Calcio Minuto per Minuto, il Lotto, la fica, le sigarette, rompere i coglioni. Il deposito della merce stava in un angolo del parcheggio dietro i palazzi e se era di buon umore e non aveva bevuto a noi ragazzini regalava sempre qualcosa che aveva trovato lungo la strada. Cuccioli di cane e gatto, pappagalli, giocattoli, tappeti, pistole, pesci, una volta persino un'anguilla. Conservo ancora uno Zero in ferro che mi fece trovare davanti al garage. Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto, di sera per festeggiare, Iacovazzo si piazzò in cortile e cominciò a lanciare razzi, fuochi d'artificio, lanciare bombe. Un razzo colpì la tapparella del nostro soggiorno e ci fece dentro un buco grandissimo che il padrone di casa si rifiutò di pagare e toccò a mio padre riparare tutto spendendo un sacco di soldi (adesso quando cerco di spiegare che la mia famiglia, ora solo mio padre, dopo la morte di mia madre e la dispersione di noi figli, viva in affitto dal 1974 nello stesso appartamento di un tempo, rifiutando ciclicamente di acquistarla quella casa, perché mio padre che é socialista, non comunista, ha sempre avuto qualche problema col possesso e infatti ha pochissimi euro in banca, la gente rimane sempre a bocca aperta...per fortuna che adesso vivo in un paese dove quasi tutti sono in affitto perché comprare casa costa un occhio della testa). A mia nonna quasi venne un infarto però poi sorrise perché mia nonna era una donna strana, quasi anarchica anche se leggeva Famiglia Cristiana, ma lei la sera diceva a noi “Domani vado a trovare i parenti” e stava via un mese con una valigia e poi tornava con un sacco di regali e storie come se avesse fatto il giro del mondo. E lui, Iacovazzo, in cortile piange, gridava, sorrideva e io sorridevo insieme a lui e a tutti gli altri che affollavano i balconi perché quel rumore era stato come quando si sta partecipando a una guerra di felicità. Tutti i bambini dei palazzi avevano applaudito, gridato, lanciato dalle finestre e dai balconi tutto quello che potevano lanciare. Solo qualche adulto aveva avuto qualcosa da ridire (erano i tempi in cui se volevi insultare qualcuno bastava dargli del Terrone). Tipo la Genny che abitava al primo piano dell'altro palazzo e che ancora oggi fa la pettegola e quando mia madre si era ammalata e io tornavo a casa dalla Svizzera mi faceva capire che per lei ero una brutta persona e che se mia madre si era ammalata era anche per colpa mia, di tutto quello che avevo combinato. Anni dopo ad Agostino venne un ictus e dopo il ricovero cominciò a passare i suoi giorni seduto su una sedia in cortile. Plastica bianca che puzzava di piscio di cani. Piazzata al crocevia dei vialetti che portavano agli ingressi dei palazzi. Ancora oggi vialetti protetti da siepi assassine. Dovevi per forza parlare con lui se uscivi o entravi o facevi pisciare il cane o ti affacciavi al balcone. Quei dieci, quindici minuti sono stati per me una terapia utile per scaricare la tristezza che avevo in corpo, per lasciarmi andare, per restare all'erta, per rimanere bambino, per non vergognarmi di quello che ero e che sono sempre stato, un uomo debole, fifone, depresso, solitario. Quando Iacovazzo è morto e mio padre mi ha telefonato per dirmelo è come se fosse scomparsa una parte consistente della mia vita. Il cortile, noi bambini, gli adulti, il muro di Berlino, le 127 parcheggiate in cortile, le Alfa Sud, i piccoli furti, la Renault 11 o la Simca di mio padre, la Peugeot 205 di Carmine che spacciava e rimorchiava donne e che non mi sono mai accorto di quanto fosse molto più vecchio di noi, i soldatini di plastica, le battaglie campali combattute attorno ai ruderi di una casa, le nonne in cortile che avevano vissuto la Prima Guerra Mondiale, le secchiate d'acqua per farci stare in giro, i bottegai che ci facevano credito e sopra il credito la cresta, i Sì, i Ciao, i Garelli, le Vespe, i coetanei che dopo la terza media andavano a lavorare, le ragazze che la sera uscivano in minigonna per andare a ballare a Brescia, i tossici che sono sempre stati gentili con me, gli operai che tornavano a casa stanchi, le tute blu appese ai fili, i tessitori tutti con lo stesso cognome, gli idraulici, la Graziella rosa di mia madre, il Lambro, i campi coltivati, i cimiteri dove prima riposavano i miei antenati e dove oggi riposano mia madre, mio zio e persone che conosco bene, come Camillo che sperava che io finissi per giocare in serie A. Leggere Paolo Nori è come se riportasse a galla tutto questo e molto altro. Dentro c'è tutto un carico di dolore, sentimenti, sorrisi che accompagnano le confezioni da sei di birre o le bottiglie di vino rosso che bevo tutte le sere. E leggere Nori mi fa guardare la mia compagna e trovarla ancora più bella, ribelle, “turbolenta”, di quando già non lo sia. Dopo che ho letto Nori e io la guardo in quel modo lei si gira e dice “Che faccia da scemo che hai. Fai le tue cose. Non stare a guardarmi. Brutto.”