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lunedì 29 febbraio 2016

brevissime considerazioni su quella merda di Putin e sulle stronzate di un libro di Ida Magli e poi il nuovo singolo di Marissa Nadler e Céline

- Ascolto per caso, in un bar, una conversazione su Putin e ribadisco: per il sottoscritto Putin è un merda e nient'altro. Inutile perderci tempo. Avete Risiko per la Geopolitica. E gli adoratori/estimatori di Putin sono solo degli idioti, leccaculi, opportunisti, furbacchioni, eccetera. E i bombardamenti russi sono terrorismo tanto quanto quelli degli Stati Uniti e della Nato.

- Uno ci prova a leggerlo ma alla fine bisogna dirlo: "Difendere l'Italia" di Ida Magli è un saggio che deborda stronzate a ogni pagina e sono così tante le stronzate contenute in questo ridicolo saggio che mi sono vergognato nel eggerlo. 
Ecco, di questo avrei litigato con mia madre.

- Nuovo singolo di Marissa Nadler che anticipa il suo nuovo album: "Strangers" ( Bella Union)



- Isabella Cesarini scrive a proposito di "Lettere alle amiche" di Céline: "La passione per le cosce salverà il mondo: le “Lettere alle amiche” di Céline"

- Sulle votazioni di ieri: "Mancava solo papa Francesco"

- Quanto mi manca John Ford.


domenica 28 febbraio 2016

I famelici cittadini consumatori

E così hanno vinto i famelici consumatori in astinenza di mezz'ora, gli shoppettari compulsivi, le gole profonde del carrello e dello scontrino, i turisti dello scaffale, quelli del "ma come faccio senza il prezzemolo", quelli che strillano se per uno, due giorni restano senza il pane fresco, quelli che sognano città illuminate a giorno 24 ore su 24 e un mondo formato Amazon, quelli che credono che il turismo a ogni costo sia una risorsa e non invece distruzione, quelli che ogni desiderio deve essere soddisfatto nell'immediato, quelli che un giorno di riposo, di silenzio è una roba da Medioevo.
Fra molti di questi esemplari della nuova razza umana ci sono anche coloro che straparlano di diritti, di bio, di equosolidale, di sinistra, di solidarietà, di cazzate. 
Mai nessuno che cerchi di sviluppare un pensiero complesso.
No, niente, non ce la fanno proprio.
Che tristezza.







sabato 27 febbraio 2016

Guardano all'insù verso il cielo, le votazioni di domani, Mumbo Jumbo, Nido Familiare, Tantarmi

- Torno dal lavoro stanchissimo e vedo parecchie persone nella zona dei campi da calcio guardare all'insù, verso il cielo grigio, a cercare la neve. Stanco come sono guardo in basso verso le mie scarpe da tennis in pessimo stato e le ulcere sulla mano che stanno finalmente guarendo.

- Domani si vota su alcune questioni che mi stanno molto a cuore. Non credo che sorriderò per il risultato. Comunque vi dico come la penso: sono favorevole alla consultazione contro la speculazione alimentare, contrario alla rottura di coglioni sul matrimonio fra uomo e donna, no al raddoppio/risanamento del Gottardo che non farà che aumentare il traffico, no all'espulsione degli stranieri che commettono reati, no alla nuova normativa sull'allungamento dell'orario di apertura dei negozi.


Finalmente fra qualche giorno potrò leggere "Mumbo Jumbo" amatissimo anche da Thomas Pynchon.



Lo davano stamattina. Straordinario.

- Se mi mancherà qualcuno dei miei colleghi? Di sicuro la mia collega vietnamita. Hang. Maestra, amica, spalla, torturatrice, corretta, fuori di testa, donna che crede ai tantarmi (fantasmi) come me. Io ci credo proprio ai fantasmi, alle streghe, eccetera, eccetera. Anche agli angeli.

venerdì 26 febbraio 2016

Leggere, Sophia, Giappone, Terrence Malick

- Ho letto le ultime trecento pagine di "Città in fiamme" di filato, senza mai fare altro, se non alzarmi talvolta per andare a pisciare, versarmi della birra o mettere su un caffè. Quando sono arrivato alla fine, mi sono scontrato con queste parole: "Vi vedo. Non siete soli." e mi sono ridestato tornando a sentire il frastuono del palazzo, della strada, della mia testa. Questo romanzo fluviale è stato un compagno di viaggio in giornate nere. Non scriverò nient'altro su questo romanzo. È una questione troppo privata per farlo. 


Il 15 aprile esce il nuovo disco dei Sophia: "As We Make Our Way" (Unknown Harbours) e "Resisting" è il primo singolo. Cazzo......mi limito a scrivere.


- Alessandro Baratti recensisce su Gli Spietati: "Knight of Cups" di Terrence Malick. Da fan in ginocchio di Malick spero di vederlo presto.

mercoledì 24 febbraio 2016

L'immagine di oggi, il lavoro e altro, con molta stanchezza addosso e occhiaie nerissime

- La sola qualità del pomeriggio milanese in attesa ai mia sorella? Le giovanissime modelle eteree, efebiche, tossiche, scheletriche, ripetitive, insulse, violacee sugli occhi, sensuali, ammiccanti, in cappelloni e occhiali per nascondere la loro straordinaria bellezza mortale. Guardarle negli occhi, seguire il loro svanire.

- Ogni programma settimanale di lavoro segna l'eliminazione di un collega. E mi vengono i crampi allo stomaco per non aver nessun futuro davanti a me. Non importa se manterrò o no il posto di lavoro. Intendo il futuro. Nessuna prospettiva. Nessun piano A. Ed è meglio così. Il piano B è per i volenterosi. Gli ortodossi.

- Ho delle ulcere sulla mano destra che non guariscono. Nei due bar i baristi erano disgustati dalle mie medicazioni sommarie. I prodotti che uso al lavoro sono corrosivi. Non aiutano a guarire.


(qui)

...che poi per difenderla certe volte penso che basterebbe bombardarla a tappeto...

lunedì 22 febbraio 2016

Su Ida Magli e mia madre

Da poco è morta Ida Magli. Se ne è parlato poco. Se penso a lei penso a mia madre. E infatti mia madre la apprezzava molto. Ida Magli è una di quelle persone, esattamente come mia madre, con la quale avrei passato la vita a discutere, litigare e picchiare i pugni sul tavolo. 

Ne hanno scritto fra gli altri: L'IntellettualeDissidente, qui c'è un'intervista di Francesco Borgonovo, Matteo Rovatti su Il Primato Nazionale, Giordano Bruno Guerri su Il Giornale,  ne ho letto su Barbadillo, Monica Lanfranco su Il Fatto Quotidiano e il resto, se vi interessa, cercatevelo voi.

(Ieri scrivevo di Eco-mio padre, oggi di Magli-mia madre...questo fa capire la relazione sentimentale complicata che teneva stretti i miei genitori...un legame indissolubile...una storia d'amore incredibile)

Di fanzine, punk e Kina

Più o meno a metà di "Città in fiamme" è riprodotta una fanzine punk che mentre la leggevo mi sono commosso. Ho ripensato a quando me le facevo arrivare per posta, le raccoglievo ai concerti, me liepassavano amici e amiche. Ho ripensato a una ragazza, L., che mi ha ricordato la Sam del romanzo. Anche lei aveva una fanzine e te la spediva a casa in cambio di francobolli o qualche offerta. Dentro, scritte a mano, il racconto delle sue giornate di giovanissima punk, recensioni di concerti, fumetti, dischi, inni all'anarchia e alla rivolta, sfoghi adolescenziali, oroscopi folli e alcolici. La vidi due volte, la prima a un concerto in una casa occupata. Da qualche tempo la fanzine aveva tempi dilatati di uscita e si capiva che sta per morire. M'ero immaginato una punk sfrontatissima, aggressiva e invece mi ritrovai di fronte una ragazzina minuscola, vestita da punk, con un forcina di capelli nella guancia ma con ancora addosso i bravi modi da studentessa di provincia. Si era fatta di qualcosa perché aveva gli occhi sbarrati e la bava alla bocca ma parlammo tanto, tantissimo e conobbi altri lettori della fanzine e la sua tipa, che ricordava Nina Hagen. La rividi quasi dieci anni dopo. Era rimasta minuscola ma questa volta l'eroina l'aveva ridotta a pelle e ossa. Una punkabbestia circondata da cani. Fu lei a riconoscermi e ad abbracciarmi fortissimo. È stata una delle prime persona che lesse le mie robe ma fui sempre restio a farmele pubblicare sulla sua fanzine. I tatuaggi non riuscivano a nascondere i segni dei buchi, i lividi, le vene andate. Restammo nuovamente a parlare per almeno due ore ma quando capii che doveva assolutamente rimettersi in cerca di roba la lasciai andare. Mi diede un bacio sulla fronte e sentii un pezzo della mia vita andarsene via. Tempo dopo tornai in quel quartiere e chiesi a delle persone che conoscevo che fine avessero fatto L. e il resto della banda che stazionava da quelle parti. Mi disse che da quando la zona era cambiata anche la gente era cambiata. Un giorno c'erano e un giorno non c'erano più stati. 


domenica 21 febbraio 2016

Una confessione strettamente personale su Umberto Eco

Lessi "Il nome della rosa" per fare un piacere a mio padre che lo acquistò appena uscito a Bellagio. Le prime pagine mi piacquero poi lo mollai. Tempo dopo, in collegio, lo rilessi e ci scrissi sopra qualcosa di buono ma per far piacere a lui. Ero nella fase dove ogni cosa che facevo era per ingraziarmi mio padre che pensava, sostanzialmente, che io fossi una merda. Come giocare a calcio, quando giocavo solo per farlo felice. Anche se in verità a giocare a calcio ero dotato di un talento superiore al suo. 
Umberto Eco è mio padre. Nel suo modo di porsi. Nella sua cultura travolgente.
A me Eco non piace forse perché mi ricorda mio padre. E io con mio padre non riesco quasi a starci e ci sto solo se lo faccio parlare altrimenti potrei ucciderlo. 
O forse Eco e i suoi romanzi non mi piacciono e basta e non mi piace lui come persona.
Ma questo dimostra quanto io non riesca mai a liberarmi dal peso asfissiante di mio padre.
E quanto l'aver scritto queste righe mi faccia sentire in colpa.
E quanto questo strumento stimoli il mio narcisismo.

MA ONESTAMENTE DEI ROMANZI DI UMBERTO ECO E DI UMBERTO ECO NON ME NE FREGA UN EMERITO CAZZO HAI CAPITO? NON MI DICONO NULLA E NON MI HANNO MAI DETTO NULLA!!!!!!!!!!

E quando finirò in un cazzo di ospedale di merda metti a tutto volume questo cazzo di pezzo, hai capito?


sabato 20 febbraio 2016

Di pop-corn, maleducazione, tifosi, Paolo Borgognone




- Oggi in tanti andranno al cinema, penso. Ecco, quando andate al cinema e mangiate pop-corn, regalate un sorriso a quelli che li hanno prodotti. Fra quelle persone ci sono anch'io. Oggi (e tanti altri giorni prima) c'ero io nel piano interrato di un cinema a prepararveli.

- Esco dal lavoro stanco, triste, con la testa altrove e al bancone di un bar mi vedo superato da una coppia alternative-chic in cerca di una birra. Avrei voluto spaccare loro la faccia. Ma ho preferito far finta di nulla, dopo essere stato anche invitato ad essere più veloce la prossima volta.

- Che bello vedere dei tifosi anziani farsi ore di macchina per seguire la loro squadra del cuore. Almeno 140 anni in due. Lui la sciarpa al collo, lei il cappellino. Avrei voluto abbracciarli mentre gli spiegavo come raggiungere il parcheggio gratuito più vicino.


(qui)


venerdì 19 febbraio 2016

Lav Diaz "A Lullaby to the Sorrowful Mystery", il sempreverde disprezzo per talkshow/opinionisti/politici, Simone Cristicchi


Lav Diaz è uno dei miei registi preferiti e quanto invidio coloro che a Berlino hanno potuto vedere il suo nuovo film che dura 8 ore: "A Lullaby to the Sorrowful Mystery".

......

Corridoni sembra rivivere in questo periodo.

-

Cerco di seguire un talk show dedicato ai giovani senza futuro ma il disgusto vince sulla pazienza e devo mollare e andare prima al cesso e poi a dormire. 
Non capisco nemmeno che cazzo ci trovi uno a discutere di nomine rai e altre cagate del genere o a seguire discussioni parlamentari, primarie, battaglie di civiltà, sentinelle, sentinelli, vescovi, papa, grillini. Al chiuso, sotto le coperte, mi consolo con In Utero e questa canzone. Lo ripeto spesso ma questo è l'album più importante della mia vita.




- Arrivato quasi a duecento pagine de "Città in fiamme", alcune cadute qua e là, ma è sbocciato il rapimento.

- Cazzo i bravi lombardi sordi e ciechi, che non vedono mai un cazzo. Mafia, n'drangheta, camorra, tangenti, mazzette. Quando torno da mio padre e provo a parlare di queste storie tutti fanno finta di nulla. Prendete per esempio questa notizia che riguarda Valmadrera, Lecco, eccetera: "Metastasi. Chiesti 130 anni di carcere, 8 per l’ex sindaco Rusconi" Dei risvolti strettamente giudiziari frega poco ma per chi ha vissuto da quelle parti con gli occhi aperti non sono storie così strane. Dispiace che persone di sinistra che conosco continuino a comportarsi da struzzi in nome di una presunta alterità, che tra l'altro non è mai esistita.

- Bazzico spesso questo posto perché ha un sacco di libri usati e fra gli ultimi acquisti c'è anche questo:


Io ci giro intorno. E quanta paura ho di finire rinchiuso in posti del genere. E potrebbe succedere anche domani.


giovedì 18 febbraio 2016

Pedro Lenz contro il raddoppio del tunnel autostradale del Gottardo: "Il blues del tubo"

Pedro Lenz è stato uno degli incontri letterari e non solo migliore di questa mia esperienza svizzera. 



Su Lankelot avevo recensito il suo: "In porta c'ero io!" (Gabriele Capelli) tradotto da Simona Sala, la stessa che ha tradotto questo "Il blues del tubo":

Il blues del tubo

(di Pedro Lenz, traduzione di Simona Sala)



Innomeddiddionno, nonunaltra,/

no, nonunanuovadipacca,/

nonunaltrotunnelnuovo,/

nonancoranuovotraffic(o)inutile.//



NonènullalaNeat?/

NoninteressalaNeat?/

NonhanappenafinitolaNeat?//



Nullacontanulla,/

no, nevoglionancheunanuova,/

unasecondasiacosissia,/

unancoracistà,/

unancoracistà, nella montagna,/

unagalleriancoracistà, da qualche parte/

manoncenesonogiatré,/

allorasarebbelaquarta.//



Lasciamincircolazione/

ancorapiùcamion./

Ancoreancoreancora/

Lasciambucarebuchiovunque./

Ancoreancoreancora/

Frescasfaltonuovo/

lamontagnadabucare,/

larocciadatraforare,/

ariadalpidappestare.//



Bastachequalcosasimuova./

Bastapotereguidare./

Bastasmotoraresmotorare/

dappertuttoquaelà.//



Epprestosaremdinuovincolonna/

incolonnaperore/

perore, perorincolonna,/

nelleterrediuriprima,/

poidaqualcheparteinleventina,/

peroreore, peroreore,/

bloccatincolonnatinattesa.//



Limportantechequalcosasimuova,/

Limportantepoteregasare,/

Limportanteconlapropriauto,/

Limportanteconlapropriamoto,/

Limportanteconilpropriopullman,/

Limportanteconlemerci/

conlemerciattraversare/

ilgottardopassarepassare.//



Elalineaferroviaria?/

Sesidovessecaricare/

menodannidacontare,/

cifossemenovogliadipuntare/

cisarebbemenosmaniadibucare,/

dovessimodavverovalutare/

noncisarebbedasperperare.//



Matuttocciònoncontaniente,/

Icostinonsonounargomento,/

Proteggerlealpinonunargomento,/

almenounacivuole,/

almenunaltrafacciamola,/

eppurenebbiamogiàtre,/

ibuchinellamontagnatre.//



AGöschenenpotremmotrasferire,/

Aaaairolopotremmotrasferire,/

Aaaerstfeldpotremmotrasferire,/

Abiascapotremmotrasferire.//



Edestatepotremmopassaresopra,/

sarebbanchequestanavariante/

pertuttiquelliacuipiace/

echesuallospizio,/

vorrebberobersiuncafecrèm.//



Aquantopareperònonbasta,/

nononoancorpiùdobbiampoterguidare,/

sullagallerianonpoassiamorisparmiare,/

nuovibuchidadetonare,/

nuovagalleriadatraforare,/

laprotezionedellealpidimenticata,/

lanostramontagnadivorata.//



Innomeddiddionno, nonunaltra,/

no, nonunanuovadipacca,/

nonunaltrotunnelnuovo,/

dobbiamodirediNO/

NOallequattrocorsie,/

NOastradenuove./

NOallasecondagalleria.



©versione italiana di “Röhrenblues” (Pedro Lenz 2016 ) di Simona Sala, 12 febbraio 2016

Versione originale di Pedro Lenz (www.pedrolenz.ch):

Röhreblues



Nondediö nei, nid no ne nöii,/

nei, nid no ne nigunagunöii,/

nümm no ne nöii Röhre,/

nid no meh nutzlose Nutzverchehr.//



Isch de NEAT nöime nüt?/

Nimmt NEAT niemer Wunger?/

Hei si nid grad e Neat bboue?//



Das zöuht auem aa nüt,/

nei, si möchten no ne nöii,/

e zwöiti söus si, säge si,/

eini müess es no möge verliide,/

eini heig no Platz im Bärg,/

ei Röhre dörftis nöime no si/

derbi gits sowieso scho drü,/

es wär so gseh scho die vierti.//



Immer meh und no meh/

Laschtwäge dür d Landschaft lo./

Immer meh und no meh/

Löcher i d Landschaft lo loche./

Immer meh und no meh/

Früsch asphautierti Stoue/

dür d Bärge düre boue,/

i d Föusen ine houe,/

und d Aupeluft versoue.//



Wenn numen immer öppis geit./

Wenn nunme immer gfahre wird./

Wenn numen immer überau,/

chli cha gmotoret wärde.//



Und gli scho stöh mer de wieder/

stöh mer de wieder stundelang/

stundelang, stundelang im Stou,/

irgendwo im Urnerland,/

irgendwo ir Leventina,/

stundelang, stundelang,/

stecke mer fescht und warte.//



Houptsach es louft öppis,/

Houptsach säuber Gas gä,/

Houptsach säuber mit em Chare,/

Houptsach säuber mit em Töff,/

Houptsach säuber mit em Car,/

Houptsach säuber mit de Ware/

stockend dür dä Gotthard fahre.//



Und de d Isebahnstreckine?/

Würd me meh verlade/

gubs weniger Schade,/

würd me nid eso bloche/

gubs weniger z loche,/

luegti me uf Choschten u Nutze/

gubs nid so vüu z verputze.//



Aber das zöui aus zäme nüt,/

Choschte sige kes Argumänt,/

Aupeschutz sig kes Argumänt,/

zmingscht eini müess no häre,/

mindeschtens eini müess es no si,/

derbi gits doch jetze scho drü,/

sis scho drü Löcher im  Bärg.//



Z Göschene chönnt me verlade,/

z Airolo chönnt me verlade,/

z Erschtfäud chönt me verlade,/

z Bisaca chönnt me verlade.//



Und drüber fahren im Summer,/

wär süsch ou no ne Variante/

für die wo Freud hei dranne/

und uf em Hospitz obe,/

es Kafi Creme möchte näh.//



Aber das längi schiins no nid,/

nei, me müess gäng no meh fahre,/

dörf joo nid a de Röhre spare,/

müess immer nöii Löcher spränge,/

müess no ne Röhre dürezwänge,/

der Aupeschutz isch scho vergässe,/

si wei sech düre Föuse frässe.//



Nondediö nid no ne nöii,/

nei, nid no ne nigunagunöii,/

nümm no ne nöii Röhre,/

mir säge lieber NEI/

NEI zum Usbou uf vier Spure,/

NEI zur Strossezwängerei./

NEI zur zwöite Gotthardröhre.


Un estratto da "Ubicumque. Saggio sul tempo e lo spazio della mobilitazione" di Fabio Merlini (Quodlibet)



Ubicumque. Saggio sul tempo e lo spazio della mobilitazion” di Fabio Merlini (Quodlibet) è un libro prezioso. Leggerlo mi ha fatto stare bene. 

Trascrivo un brano dove trova spazio Heidegger:

“Heidegger aveva posto la medesima domanda in una conferenza dell’inizio degli anni Cinquanta, chiedendosi che cosa ne fosse dell’abitare “nella nostra epoca preoccupante”. L’epoca preoccupante è per Heidegger l’epoca dell’estraneazione. Con una sorprendente anticipazione della condizione contemporanea, il filosofo coglieva quella condizione di sradicatezza, cosí famigliare ai nostri occhi, alimentata a suo dire da un’equivoca comprensione del linguaggio, quando ci si illude di poterlo padroneggiare come mezzo di espressione, dimenticando che esso è invece il luogo del nostro stesso accesso al mondo, e rovesciando cosí il rapporto di sovranità che lo lega all’uomo. Non è questo però il punto che ora ci interessa. Più pertinente, a questo riguardo, è il fatto che la questione dell’abitare sia messa in relazione con l’osservazione secondo cui la terra è attraversata vertiginosamente da “un flusso, insieme caotico e abilmente costruito, di discorsi, scritti e messaggi” in ragione del quale linguaggio e comunicazione finiscono con il celare il significato originario dell’esperienza dell’abitare. Vi sarebbe, nell’epoca dei flussi, un modo di dare corso all’esistenza che smarrisce il senso dell’abitare; un modo di rapportarsi agli spazi che ne impedisce la trasformazione in luoghi, ossia in spazi in cui l’uomo possa essee. Che cosa significa qui “poter essere”? Secondo la ricostruzione lessicale proposta da Heidegger, significa poter abitare: l’abitare è il modo in cui l’uomo è sulla terra. Si è in quanto si abita. Occorre ora chiedersi di che natura sia quell’abitare che consente all’uomo di essere; quell’abitare per mezzo del quale si dà qualcosa come un essere proprio dell’uomo; quell’abitare, una volta privati del quale, non è più possibile essere. L’abitare a cui pensa Heidegger ha il carattere pre-moderno della staticità immunologica. È il rimanere presso di sé, il trattenersi dentro il perimetro della propria identità, pacificata e resa serena da una cura che protegge ciò che, al suo interno, deve poter crescere secondo l’essenza che gli è propria. È la custodia di un vicinato che apparenta, attraverso una tradizione e un linguaggio, e nei confronti del quale è possibile sentirsi responsabili. Un “vicinato”, però, che può estendersi anche all’intera comunità degli uomini, quando l’abitare viene inteso come il loro soggiornare sulla terra. “Soggiornare” ha qui un senso preciso che le condizioni attuali dell’esperienza dello spazio rendono del tutto improbabile. La terra come abitazione del nostro soggiorno è un dono che occorre proteggere, lasciando ai suoi elementi la possibilità di fruttificare. Soggiornare non è padroneggiare, né tantomeno da assoggettare – le due posture che precludono ad uno sfruttamento senza limiti; assumere il silenzio del divino, senza sostituirsi ad esso; riconoscere la propria finitudine, preparandovisi, ma evitando di cadere in un oscurante nichilismo. Questo é ció che Heidegger a più riprese nel suo testo definisce “aver cura”. Ogni cosa da cui siamo circondati costituisce un’occasione di esercitare questa cura che inibisce qualsiasi gesto di prevaricazione. Nell’aver cura risiede la capacità di abitare e da questa capacità deriva la stessa possibilità di abitare.
Ma quando la cura diventa la preoccupazione per una mobilitazione che concerne tanto le cose quanto gli individui? Quando lo spazio diventa l’elemento trascurabile di un soggiornare in cui ogni luogo può essere quello giusto per raggiungere ed essere raggiunti, chiamare e rispondere, disporre e disporsi? Quando la cura agisce prevalentemente come de-contestualizzazione dei luoghi e sforamento della loro località specifica, incursione e sovvertimento delle sue regole? Che cosa ne è dell’abitare, in questi processi che sempre più definiscono la nostra esperienza dello spazio? Vi è un abitare che ripara e protegge, nella sua capacità di contenere le forze esterne (“il peso della neve” e le “tempeste delle lunghe notti invernali”). È un abitare che trova inoltre il modo di ricordare ciò che ci trascende, ed è capace di accogliere la vita lungo tutto l’arco del suo decorso, dalla nascita alla morte. Questo è, secondo Heidegger, l’orientamento dell’abitare in base al quale uno spazio può trasformarsi in un luogo. Quando oggi parliamo di una certa realtà insediativa come di un “non-luogo” è ancora questa la lezione che riecheggia nella definizione. Ci sono edificazioni che, nei fatti, non sono più “abitabili”, ma se ciò che accade è, prima di tutto, perché – stando alla lettura heideggeriana – sarebbe andata persa l’esperienza stessa dell’abitare – quell’essenza che Heidegger poteva invece ancora riconoscere nel sapere rustico così abilmente messo a frutto nella costruzione della casa contadina della Foresta Nera. Un “non luogo” è allora ciò che si produce quando lo spazio al quale siamo confrontati è quello dell’inabilità. C’è una crisi del vivere moderno che, al di là delle diverse crisi congiunturali sperimentate dalle nostre società, concernerebbe la nostra sradicatezza. Alla luce delle riflessioni svolte nei paragrafi precedenti, questa “sradicatezza” sembra tuttavia sottrarsi alla contrapposizione romantica tra luoghi e “non luoghi”. La questione, oggi, non mi sembra più tanto quella di uno spazio in cui è possibile transitare senza soluzione di continuità da un luogo a un “non-luogo”, come accade quando il sabato mattina partiamo dalla nostra abitazione per raggiungere il più vicino centro commerciale. La questione concerne piuttosto la proliferazione di uno spazio che, indipendentemente da dove ci si trovi, antepone all’esperienza dell’abitare quella della “messa in moto” – di bisogni, consumi, innovazioni, progetti, informazioni e comunicazioni. Ogni spazio deve essere predisposto a questa attivazione capace di fare dell’individuo un agente generatore di impresa, offrendogli i mezzi per informare e indirizzare la propria azione, tanto in relazione al continente della domande, quanto dell’offerta. Più che abitare oggi importa mobilitare. Lo spazio della mobilitazione è lo spazio della nostra identificazione in quanto attori di una valorizzazione che ha nell’incremento del capitale il suo obiettivo principale. Si tratta di uno spazio in cui viene meno quella differenziazione tra interno ed esterno, privato e pubblico, che è compito della soglia preservare. Là dove la soglia svanisce, lo spazio si mantiene in un’indeterminatezza che libera il campo da qualsiasi cosa possa ostacolare la nostra totale esposizione alla legge del presente. È in virtù di questa indeterminatezza che ovunque e sempre ci sentiamo convocati e riassorbiti nel flusso di interessi del presente e dei suoi imperativi. Così, non solo non siamo mai veramente più da “nessuna parte”, pur essendolo sempre necessariamente, ma laddove scompare la soglia per quale ragione chiedere ancora: “è permesso?.” (pp.96-99)


martedì 16 febbraio 2016

"Città in fiamme" di Garth Risk Hallberg (Mondadori)


Ho letto pareri contrastanti su questo romanzo appena uscito. Capolavoro, bestseller mancato, noioso, furbo, costruito, debordante, eccetera. Io sono molto curioso di leggere e soprattutto mi manca da un po' di leggere un romanzo di 1000 pagine e io adoro i romanzi fluviali.

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Un articolo molto interessante, almeno per il sottoscritto: "Le pitture di Red Horse spiegano la battaglia del Little Bighorn"

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Un articolo di Loredana Lipperini: "Come una cosa viva: per le biblioteche"

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Versailles - 2


lunedì 15 febbraio 2016

Brevemente su: "Le figlie degli altri" di Richard Stern (Calabuig)



Forse “Le figlie degli altri” di Richard Stern (Calabuig, traduzione dall’inglese di Vincenzo Mantovani) non è proprio come se Cechov avesse scritto Lolita (lo scrive Philip Roth) ma ci si avvicina. Più che la storia d’amore ad avermi conquistato sono le pagine che descrivono il rapporto del protagonista coi figli, il divorzio, l’ultimo Natale in famiglia. Pagine attraversate da una malinconia costruita su parole misurate e da un'asciuttezza di sguardo che ti si appiccica alla pelle mentre le stai leggendo.

Un estratto:

“A volte lui passa a prenderla con la vecchia Dodge, la scarica, la guarda mentre attraversa la strada di corsa fino al campus. Porta cappelli che le spiovono sulla fronte, vecchie pellicce, blue jeans. A testa bassa, col bel viso depurato della minima “imperfezione”, lei va via, “non come quella che vince”. Anche quando nel cuore di Merriwether non c’è quasi altro che pietra, questa visione di lei, leopardo e blu sotto il vasto cappello, di lei che si allontana verso l’aula del seminario col suo grande zainetto di cuoio pieno di libri, lo intenerisce e gliela fa amare. La melanconia, le paure, le bizze, l’odio per la vita, per il fatto che non riesce a far altro che rannicchiarsi in camera sua implorando prove d’amore – “Ti prego, scrivimi una lettera” – tutto questo sparisce mentre lei corre attraverso le trine di foglie svolazzanti, attraverso i cancelli di ferro con i motti latini, lungo il muro grigio di Boylston e dentro il campus. “Quando una persona è più se stessa?”. La Dodge si avvia, senza problemi tranne quando lo spurgo acido della batteria si raggruma intorno ai contatti. (“Comme nous, comme nous”, ha detto Cynthia.) Che fardello era l’io. Gesù è stato il grande terapista: seppellite l’io e cominciate a vivere. Lui, Merriwether, Gesù secolare, non aveva forse dato il meglio quando, dimentico di sé, aiutava – diciamo – gli studenti, i suoi discipuli? Senza preoccuparsi che rubassero le sue scoperte, i suoi dati. Stu Benson non si apriva quasi mai con gli studenti, dava solo qua un’indicazione, là un vago suggerimento: “Mi ruberanno anche la camicia, guarda Chambers”. (Uno dei brillanti roditori, della cui grandezza si era vociferato per quarant’anni, superato perché i suoi studenti avevano pubblicato tutti i suoi risultati.) Pungolato dalla severità di Sarah, a volte il professor Merriwether pensava, da un lato, di tagliare i ponti con gli studenti, dall’altro, di fare lo stesso con l’intelligenza scientifica rivale o dominante. Ma l’infantile agonismo che spiccava così comicamente nel libro di Jim Watson era soltanto questo, infantile voglia di emergere. Ti sosteneva nei primi anni, ma i grandi lavoratori erano quelli che ci davano dentro per venti, trent’anni, spesso elaborando meglio le nozioni di altri uomini che escogitano le proprie. Rutherford, Bohr, l’Oppenheimer di Los Alamos, il Fermi di Chicago, e ora lo stesso Jim a Long Islanda, contavano tanto per questo quanto per ciò che li aveva incoronati di alloro. Lo stesso con Cynthia. Temere di essere sfiancato da lei, dominato dai suoi alti e bassi, era la terribile grettezza del New England. La paura degli indiani che portava a ucciderli. E quella che Laswell chiamava “la profezia che si autoavvera”. Pensa in piccolo e piccolo diverrai. Nel vecchio campus cadevano foglie dagli artritici colori. La bellezza lacerante della vecchiaia. Una cosa che alleviava in qualche modo il proprio sconcerto.” (pp. 196-198)

domenica 14 febbraio 2016

Di artigiani, forcelle e Beth Orton



Leggendo un articolo de Il Giornale sulla graduale scomparsa degli artigiani ho ripensato a Ettore che si occupava di minuteria meccanica, riparazione di utensili e macchine e che svolgeva lavori da fabbro. Bazzicava nella Cooperativa Sociale dove lavoravo per riparare trapani e altri macchinari e per offrire la sua esperienza realtiva ad alcune lavorazioni. Fu lui a consigliarmi una tecnica migliore e più veloce per raddrizzare le forcelle (un lavoro ostico che piaceva solo al sottoscritto e che il responsabile della ditta metalmeccanica per cui lavoravamo come terzisti mi propose, poco prima che mi dimettessi, di farla diventare come mia occupazione e svolgerla direttamente da casa), che era un lavoro di precisione e di grosse quantità in tempi ridotti, o anche quando apportò delle notevoli migliorie per quanto riguarda le lavorazioni dell’alluminio (fu la forature delle lastre di alluminio a permettermi di vincere le iniziali ritrosie dei responsabili nei miei confronti). Ettore era un uomo modesto, di poche parole, che viveva la sua esistenza in un mondo regolato dal lavoro, da spostamenti rapidi, di spazi chiusi fatti di officina/negozio/fabbriche, di nero sotto le unghie, di una moglie paziente. Le sue mani, il suo corpo, la sua voce erano un tutt’uno col lavoro che svolgeva. Era circondato da una grazia mistica mentre si piegava su un trapano e lo riparava. La sua fortuna fu quella di avere un figlio al fianco con la sua stessa passione. Me lo ricordo ancora questo ragazzino con i rasta e la maglietta dei Green Day ascoltare i silenzio i consigli e i rimproveri del padre. Quante volte l’ho sentito Ettore lamentarsi di tasse, prestiti, banche, governo ladro, tempi che cambiavano. Quante volte abbiamo discusso io e lui delle nostre contraddizioni. 

Mi si dirà che questa è gente abituata a muoversi nel nero, senza fatture, a evadere, a lamentarsi e intanto intascare i soldi ma il nero di queste persone era una stretta di mano di garanzie, di prestazioni di qualità, era parte integrante di un sistema di amicizie/parentele e vincoli sociali, di prestazioni di qualità e vicinato che si prodiga nel momento del bisogno, di buon nome da rispettare. 

Gente che chiaramente vive all’opposto da me ma ho conosciuto e conosco personalmente idraulici, fabbri, tappezzieri, elettricisti, lattonieri, carrozzieri, panettieri, cuochi, ristoratori, addetti alle pulizie e molto altro che anche se non rilasciavano fatture o scontrini lavoravano dodici ore al giorno per passione e non per costruirsi la piscina. 

So che questa è, forse, solo una faccia della medaglia ma non posso chiudere gli occhi sull’altra faccia che non viene mai descritta per paura di contaminazioni. 

Non sono una persona con un vero spirito pratico e a distanza di anni continuo a ringraziare la Cooperativa e le persone che ho conosciuto laggiù e che mi hanno aiutato a non morire, a non andare alla deriva totalmente e che mi hanno insegnato a forare alluminio, produrre manici di pentole e padelle, costruire espositori per supermercati e negozi, fustellare, imballare e reggiare materiale da spedire, assemblare degasificatori/pompe della benzina/componenti di macchine tessili, guidare il muletto, caricare camion, guidare un furgone telonato, sistemare un magazzino. 

Conservo ancora oggi l’emozione e la bellezza di entrare col camion, la macchina o a piedi nei magazzini di grandi industrie o di officine e di avere a che fare con magazzinieri folli, educati, attenti, incazzosi, nervosi. Fumarci una sigaretta insieme, berci un caffè, mandare affanculo il mondo intero. Un mondo operaio? Proletario? Genuino? Molto spesso triviale, volgare, abbruttito, servile, maschilista ma caratterizzato da un profumo di dignità che non ho quasi mai incontrato (non voglio generalizzare) nei salotti culturali, a scuola, negli uffici, nelle banche, nelle assicurazioni, nei convegni. 

O forse è solo la malinconia a distorcere la realtà ma non posso fare a meno di lavorare in luoghi da cui esce qualcosa di fisico. 

Sarà una questione di dna, predisposizione, formazione, ambiente sociale ma tutti i miei parenti hanno o hanno avuto a che fare con la materia: i miei bisnonni paterni erano tessitori/muratori/ristoratori, mio nonno paterno, ragioniere in una fabbrica e ristoratore, mia nonna paterna cuoca e operaia in una fabbrica di scarpe, i miei bisnonni materni contadini e operai tessili, mio nonno materno soldato/tessitore/contadino e mia nonna materna tessitrice, mia madre operaia in una fabbrica di tappeti, mio padre tecnico chimico che ha sempre lavorato con colori, tessuti, mia sorella archeologa e la lista è infinita. E io faccio parte di questa lista.

Sempre innamorati di libri, cinema, arte, musica ma insofferenti a circoli culturali, università, scuole, e tutto il resto della merda.

Innamorati del mare.

Non c’è un solo mio parente che non ami alla follia il mare.

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Ci siamo dimenticati la Grecia?



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"Trailer Park" di Beth Orton è un disco bellissimo. 


sabato 13 febbraio 2016

Briciole sparse

- Quanto mi sento ormai distante da questa Milano. 
Che tristezza mi ha trasmesso quando ci sono stato giovedì. 
Che tristezza i bar/locali/ristoranti pieni alla pausa pranzo. Che tristezza quell'aria yeye che le è venuta. Che malinconia per la Milano che conoscevo. L'evoluzione/dissoluzione è stata lenta/veloce ma ormai le fondamenta per una città completamente diversa sono consolidate, amministrazione dopo amministrazione, cittadino dopo cittadino. Gli amori a un certo punto finiscono. E il mio amore per Milano, che durava da una vita, è finito giovedì. Ci andrò solo per salutare mia sorella, che per fortuna vive in periferia.



My Autumn Empire - The Light Brocade

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(qui)




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venerdì 12 febbraio 2016

Simone Buttazzi recensisce "Hail, Caesar" di Joel e Ethan Coen" Fuori Concorso alla Berlinale 66


Simone Buttazzi rimane sempre il nostro orsetto prussiano preferito ma ci chiediamo comunque come vestirebbe, ad esempio, i panni di un Cesare, di un console romano. Dal punto di vista esclusivamente estetico, ormonale. Incuriositi e peccaminosi ci limitiamo a segnalare che questo esemplare tutto da accarezzare ha scritto una bellissima recensione, tutta da leccarsi i baffi, del nuovo film dei Coen "Hail, Caesar". La potete leggere qui

giovedì 11 febbraio 2016

Su: “Nietzsche e l’Eterno Ritorno” di Miguel Serrano (Edizioni Settimo Sigillo)



“Nietzsche e l’Eterno Ritorno” di Miguel Serrano (Edizioni Settimo Sigillo, 2015, traduzione di Nicola Oliva, con postfazione di Nicola Gaudenzi, la prima edizione risale al 1973) è un saggio che dopo averlo letto sono rimasto affacciato alla finestra della cucina a occhi chiusi, affascinato e perplesso, incuriosito e convinto, malinconico e sognante. Ancora più incerto su quello che sono, sulla mia identità, sulla materia di cui sono composto, sul mio futuro, presente e passato.

Lascio due estratti, il primo mi fa un po’ sorridere, il secondo vi svela chiaramente di cosa tratta questo saggio:

“Si sa che la Svizzera è un paese speciale, ma generalmente si ignora che in fondo allo svizzero dorme un romantico, al di là di quello che gli svizzeri chiamano il loro “spirito elvetico” che avvolge tutti gli angoli della Svizzera francese, passando per la tedesca, fino a quella italiana, rendendo tanto differente quest’ultima dall’Italia del nord, da Milano e dal Lago di Como, dal quale lo separano soltanto una decina di chilometri. Silenziosamente, lo svizzero soffre di essere com’è, o come il mondo crede che sia: un piccolo borghese preoccupato della sua sicurezza, delle sue banche, dei suoi orologi, dei suoi formaggi, con una visione molto limitata, per la vicinanza di un monte ad un altro. Se è arrivato ad essere così, o ad apparire così, lo svizzero compensa, preparando la sua terra per una venuta: l’arrivo di un visitatore straordinario che deve venire ogni certo numero di anni e che, ignorando le norme dello “spirito elvetico”, omettendole, si proietta nell’eternità. Nel passato, questo paese ha ricevuto Rilke, Romain Rolland, Herman Hesse, Thomas Mann, Nietzsche. Qui vive oggi Krishnamurti. In questo modo, creando le condizioni propizie alla venuta, lo svizzero si redime. Nel frattempo, è l’albergatore, l’amministratore di un Grande Sanatorio dell’umanità che provvede ai mezzi affinché alcuni esseri d’eccezione, nei quali egli si proietta, possano vivere, soffrire, sognare qui; e, spesso, morire qui. In questo Grande Sanatorio, che gli svizzeri reggono, oltre agli orologi coi quali contano i minuti di quelle vite, hanno offerto loro quel trampolino per saltare nell’eternità. E se in realtà non fossero gli abitanti di questo paese a renderlo possibile, allora lo saranno i suoi monti, le sue nevi pure, i suoi laghi ed i suoi boschi; i sogni che si annidano profondamente nell’anima di questa terra che essa non realizza, ma che permette ad altri di realizzare.” (pag. 11-12)

“IL VIAGGIATORE  E LA SUA OMBRA
“Quello che viene dal futuro, in quella seconda dimensione del tempo, ecco che siamo noi stessi. È il nostro Anti, la nostra Ombra. Perché, in realtà, non c’è prima né seconda dimensione del tempo dentro il Cerchio dell’Eterno Ritorno. È l’energia che ripete le sue formazioni, o la luce che ritorna in un viaggio circolare. La luce si porta le nostre immagini, come un ladro cattivo, e, nell’interminabilità del tempo, un giorno di ritorno ce le riporterà. Anche possiamo mettere tutto questo in una maniera differente: se siamo capaci di montare su un Cavallo Bianco, forse di nome Psitrone che galoppi più veloce della luce, raggiungeremo le immagini e le sorpasseremo. È per questo che continueremo a galoppare verso il passato. La seconda dimensione del tempo è ugualmente la prima, che ora viene di ritorno. Da lí vengo, lí ritorno. Ma quello che viene, che ritorna, avendo la mia forma ed individualità, realizza le altre possibilità, tutte contemporaneamente, o una sola di quelle che non compí nella vita antica, nella prima dimensione del tempo, quando andava verso il futuro. […].Il corpo che ritorna, che “resuscita”, pur essendo uguale all’anteriore, tuttavia non lo è; dunque, per potere ritornare, è dovuto montare in groppa al Cavallo Bianco di Kalki, più veloce della luce. La sua materialità, pertanto, non potrebbe essere altro che immaginaria; per ciò stesso, composta di psitroni. Quello che cosí ritorna è il Doppio, l’Ombra, un Corpo Astrale, Interiore. Forse il Superuomo. E questo dovrà essere inventato, immaginato, come gli psitroni ed i numeri immaginari, come la “nuova possibilità” o le possibilità. Tutto ciò per mezzo della Magia, del Senso. O della Poesia. È il simulacro, l’istrionismo. È una Divina Commedia, un Teatro Magico…È un Fiore che non esiste, ma che è più reale di tutto ciò che esiste.” (pp. 48-49)

Un lutto, un western "Blood from Hell" di Emiliano Ferrera, e un libro che mi interessa: "Nessuno scompare davvero" di Catherine Lacey (Sur)

Ieri è morto Fabio Aldeghi, uno storico libraio lecchese. Ho trascorso tante ore nella sua libreria e tutta la mia famiglia ci ha comprato parecchi libri. Ci parlai parecchie volte anche se non era una persona, almeno per la mia esperienza, facile da trattare. Chiesi consiglio per i miei romanzi e la sua fu una delle poche librerie a metterli in vendita. Leggendo della sua vita, si incrocia un altro pezzo importante della mia vita: la libreria del Corso in Corso Buenos Aires a Milano che era una delle tappe fisse quando andavo nella metropoli con la mia famiglia, a qualche centinaia di metri dalla Dental Children dove mi risistemai la bocca.


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Si fa un gran parlare del film con Di Caprio o di quello di Tarantino ma a me, che sono un fanatico del western, interessa molto di più questo "Blood from Hell" di Emiliano Ferrera. Qualche informazione qui.

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Informazioni qui.


Il nuovo disco dei Brothers In Law: "Raise". Ne scrivono qui.

mercoledì 10 febbraio 2016

Uno dei miei incubi ricorrenti

Ho tanti incubi ricorrenti. Ce n'è uno che mi accompagna da sempre. Storia e struttura sono le stesse, a cambiare sono in parte gli interpreti, a seconda degli anni che passano e delle persone che in questi anni muoiono. Non vi sto a raccontare tutto ma solo il finale: l'incubo finisce che mi chiudono in un ospedale psichiatrico.

Mi sono svegliato livido e con la bocca secca e ho dovuto bere mezzo litro d'acqua per riprendermi ma l'angoscia non mi ha abbandonato nemmeno al lavoro.

In una delle ultime scene dell'incubo c'era una medusa che attraverso la feritoia della porta della stanza dove ero stato rinchiuso una disco parlandomi nella mente: "Nascondilo".

Il disco era questo e io lo adoro:



Lo si può ascoltare integralmente qui.

Un breve commento, con alcuni estratti, su "Filippo Corridoni. Un sindacalista rivoluzionario" di Luca Lezzi (Circolo Proudhon)


"Filippo Corridoni. Un sindacalista rivoluzionario" di Luca Lezzi (Circolo Proudhon) è un agile libretto di appena una cinquantina di pagine che ripercorre, con prosa molto semplice, l'avventurosa vita di Filippo Corridoni, dando spazio ai suoi interventi, alle sue idee e al suo programma (ben delineato in "Sindacalismo e Repubblica" contenuto nel libro), ai suoi lasciti politici, al suo interventismo, al legame con Mussolini e il Fascismo. 
Consigliatissimo a tutti coloro che non hanno mai sentito parlare di Corridoni.

Ecco alcuni brevi estratti:

"È sempre a Milano che Filippo Corridoni ancora appartenente alla CGdL conosce il nuovo direttore de "L'Avanti" Benito Mussolini. Questi è già profondamente affascinato dai sindacalisti rivoluzionari di cui Corridoni è il rappresentante milanese. I rapporti di Mussolini con i sindacalisti rivoluzionari si faranno via via più intensi ed importanti: Olivetti, Pannunzio, De Ambris, Corridoni avranno su di lui una influenza ideologica e personale notevolissima: sarà dal rapporto con loro che sostanzialmente prenderà le mosse il fascismo delle origini. Si può dire che l'influenza del sindacalismo rivoluzionario segni, d'un filo rosso, più o meno evidente ma sempre discernibile, tutta la sua lunga evoluzione politica, incidendo sin nella sua personalità." (pag. 26)

"Il problema della guerra rivoluzionaria è ormai all'ordine del giorno del proletariato che non può più ignorarlo, dovendo fare i conti con esso. Insieme a De Ambris, Corridoni è l'organizzatore dell'interventismo milanese che annovera tra le sue fila: sindacalisti, socialisti rivoluzionari, repubblicani e anarchici. Il 10 ottobre Corridoni fonda con Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Amilcare De Ambris, Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, A.Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio Rossi, Sincero Rugarli e Libero Tancredi il Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista e ne sottoscrive il manifesto programmatico. Come confessa al fratello Baldino, anche Mussolini è ormai schierato sulle posizioni interventiste. Il dicembre 1914 Corridoni ormai sempre più impegnato sul fronte interventista pone il problema maggiore da superare nell'assenza di maturità morale delle masse, dichiarando sulla testata "L'Avanguardia" che il problema della guerra è troppo forte per i cervelli proletari incapaci di vedere nella stessa oltre che strage, fame e miseria i sacrifici che frutteranno negli anni benefici incalcolabili. La guerra può spianare la via della rivoluzione sociale, eliminando gli ultimi rimasugli della preponderanza feudale. La soluzione per Corridoni è dare una coscienza di classe al proletariato, contemplando nuove battaglie diverse da quelle per il salario e l'orario, illuminando nuove vie della marcia proletaria affinché "non si viva più per mangiare ma si mangi per vivere". (pag. 35)

"Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno, pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia, o nella corsa di un assalto ma - se potrò - cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora." (pp. 40-41)

martedì 9 febbraio 2016

Un estratto da "Interrogation" di Drieu La Rrochelle (La Finestra Editrice)


Un libro prezioso. Arrivato al momento giusto. il giorno giusto. L'ho raccolto con ansia. Un libro che mi fa sanguinare. "Interrogation" di Drieu La Rochelle (La Finestra Editrice) Di quelli che turbano il cuore. Che scuotono le sicurezze. Che mi muore in gola mentre lo leggo. Che mi si tatua sulle mie paure. Che mi fanno sentire ancora più solo. Poesie di guerra. Poesia di vita.

Un estratto da: "Paura della pace":

[...] 
"Cosa sarebbe il mondo, senza il male?
Ahimè, appiattito sul fondo della trincea, sotto lo zaino
e il dolore, a volte ho desiderato quel vostro nulla, ma
non sono riuscito a contentarmene. Non si tratta della
salvezza degli uomini, si tratta di difendere il tesoro della mente.
Il vostro ideale fu la mia vergogna
Ecco il mio intimo grido: temo la vostra pace.
Non vedo. Ho paura,
eppure voglio farvi una confessione:
Questa guerra democratica è cupa, e la sua monotonia
si estende come una spudorata pace.
Dov'è la magnificenza dei primi tempi?
Eppure, qua e là, ci sono momenti indicibili
Quando l'uomo è in preda alla sacra allucinazione
Ed io tornerò sempre a quei momenti
Che redimono la stupidità del mondo." (pag. 103)

Qui Sandro Marano ne scrive molto meglio.

Su "Sette anni di felicità" di Etgar Keret (Feltrinelli)


"Sette anni di felicità" dello scrittore israeliano Etgar Keret (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani) è un libro autobiografico di quelli che lasciano il segno per la qualità della scrittura, per i racconti folgoranti che lo compongono. L'autore riesce a mescolare le difficoltà del diventare padri e la ricerca delle tracce della propria famiglia spazzata via dai nazisti, i tour letterari e la morte del padre, il fratello anarchico e la sorella ortodossa, Tel Aviv e Taormina, lo stato d'assedio in cui vive Israele e il figlio che cresce, l'amore per la propria donna e i territori occupati. Sembrano quasi delle favole questi racconti e ti entrano in bocca come un cibo di cui sentivi la mancanza. E che voglia di Israele mi hanno messo. E di Yom Kippur. E di incontrare i taxisti di questi racconti.

lunedì 8 febbraio 2016

Breve commento su "Notturni" (Edizioni Settimo Sigillo)


Viene la notte e mi involo, 
Lontano dai muri della mia prigione,
Essa basta a farli sparire
Ritrovo la vastità dei miei orizzonti.
Che m’importa se mi hanno rinchiuso?
La notte distrugge ogni barriera.

Di notte passeggio
Sotto il sole dei giorni passati.
Non vedo più ciò che m’incatena,
Il sonno frantuma anche il destino:
Ecco il mare, ecco la Senna,
Ed ecco le fresche gote dei miei.

Come nei campi di Germania,
Ogni notte, o Notte, ritorni
A rendermi tutto ciò che mi vien tolto,
Chiudo gli occhi sotto le tue mani,
Me ne vado, tu mi accompagni,
Mi carezzi fino al mattino.

O Notte, solo tesoro
E del libro e del reietto,
Ti ho dunque ritrovata, o meraviglia
Dopo ben tre anni eccoti di nuovo!
Mi abbandono alla tua dolce carezza,
Rapiscimi come nel passato

Sulla paglia dove riposa il soldato,
Tu mi recavi gli stessi sogni
Degli uomini felici, e non lo  ero.
Oggi mi rifugio in te,
O soccorrevole, o sempre presente, 
O Notte, sincera.” (Robert Brasillach, Viene la notte, 24 ottobre 1944, da “I Poemi di Fresnes”, pag. 37, Edizioni Settimo Sigillo)

Ci fu un periodo quando ero piccolo che la sera per addormentarmi dovevo cantare nella testa la sigla de L’Uomo Tigre. Lo facevo per farmi forza e affrontare quello che sarebbe arrivato. Non avevo paura del buio in sé ma di tutte le paure che mi salivano dentro appena mi stendevo a letto, mia sorella o mia madre spegnevano la luce e io rimanevo in silenzio, solo, inerme. Dentro di me crescevano l’angoscia, i sensi di colpa, le difficoltà, la solitudine, la voglia di morire. Ancora oggi vivo quelle sensazioni quando mi stendo e il mio sonno è scosso quotidianamente da incubi che mi fanno svegliare di soprassalto, lasciandomi livido e incapace di respirare. Da sveglio, al buio, dovunque mi trovo il mio male di vivere esplode. Se durante il giorno la luce del sole funziona come una specie di flebile protezione, di notte rimpiango il fatto di essere ancora vivo. Non mi salva andare a concerti, lavorare, leggere, scrivere, guardare un film, stare steso con la mia compagna se lei sta dormendo. Devo sempre compiere uno sforzo immane per non farmi travolgere. Stare fuori, peggiora ulteriormente la situazione. Nella notte ho vissuto i momenti peggiori della mia vita.Eppure è proprio nella notte che ho conosciuto me stesso, ho preso le decisioni più dure, ho combattuto, ho corso a perdifiato, ho conosciuto persone importanti, ho imparato ad amare.
Ed è nella notte che ho guardato lontano, da qualche parte, lontano dalla prigione di questo mondo.



Tutta questa lunga premessa per scrivere due righe su “Notturni” (Edizioni Settimo Sigillo, 2016, con prefazione di Sandro Giovannini e postfazione di Lewis Stavion), una raccolta di racconti che, come facilmente si evince dal titolo, sono accumunati dal tema della notte. Alcuni di questi mi sono apparsi del tutto trascurabili, esercizi di stile, poco emozionanti e sto parlando soprattutto di quelli che uniscono narrazione e poesia o tecniche sperimentali. A convincermi sono stati ben pochi racconti: “Un salto nel buio” di Roberta Di Casimirro sul tema del viaggio notturno con l’autrice che parte in autobus da Belgrado verso Velica Hoka, in Kossovo, e nella notte abbraccerà la dignità del popolo serbo, affronterà le difficoltà linguistiche e le tensioni latenti e alla luce del giorno raggiungerà l’agognata meta; “Donna Olimpia” di Gabriele Marconi che rispolvera, in chiave romana, la tradizione gotica dell’incontro notturno coi fantasmi; “Heroes” di Davide Sabatini, dedicato a David Bowie (ricordandone le sue simpatie naziste) e a come nacque, nella notte berlinese, il titolo di questo capolavoro; “Non c’è posto” di Augusto Grandi, venato da una forte critica sociale, che racconta la dolorosa storia di coloro che hanno perso tutto e vivono per strada e nella notte torinese cercano rifugio sotto i cartoni, scacciati dai dormitori e dalle case popolari ormai destinate solo agli immigrati, un uomo e una donna che forse, alla fine del racconto, trovano la salvezza in un’occupazione a scopo abitativa di poundiana memoria; e infine “E solo stelle, cielo e silenzio” di Mario Michele Merlino che fa vivere al lettore le emozioni di un milite della Repubblica Sociale Italiana ormai anziano che ricorda gli anni della guerra, le sue avventure, il sangue, gli ideali mai perduti e l’amicizia che non muore mai.

Al ricordo sorride. In fondo ha vissuto intensamente quella breve stagione e, a conti fatti, sarebbe ancora della partita. Certo l’8 settembre, data infame dell’armistizio, il tradimento di Badoglio, Mussolini liberato dalla prigione del Gran Sasso per finire macellato a Piazzale Loreto, i tedeschi, gli alleati, i partigiani, loro stessi con quell’anacronistico moschetto modello ’91, tutte quelle parole sulla Patria e l’Onore, dopo oltre mezzo secolo sono chiacchiere vane…Affidate ai libri di storia, rispolverate ogni 25 aprile, scimmiottate da ragazzotti dell’una e dell’altra parte, pretesto per scaldare i muscoli, alla stessa stregua della discoteca il sabato sera o della domenica allo stadio. Un sorriso, forse una smorfia…Eppure, qualcosa permane e lo sa. Si alza a fatica, nel corridoio fruga nella cassapanca, una busta gialla con dentro un libro. Sono i Canti di Leopardi, la copertina ormai s’è consunta, alcune pagine scollate e i bordi si sono sfrangiati. Editoriale Romana, febbraio 1944. Lo sfoglia delicatamente. Va a pagina settantasette. Il tempo s’è fermato o, forse, gira come un discoso all’inverso. Legge piano, strizzando gli occhi da presbite, appannati dalla cateratta e dalla rinnovata commozione “Sempre caro mi fu quest’ermo colle…e mi sovvien l’eterno, - e le morti stagioni, e la presente – e viva, e il suon di lei…”. V’è a lato una scura, indistinta ormai, macchia di un indice, il suo, sporco del sangue di Almerigo. Comincia a far freddo, si dice, chiude il libro, accosta i vetri della finestra. In cielo rimane la luna indifferente e fredde le stelle…” (Da “E solo stelle, cielo e silenzio, pp. 87-88)

Tutti gli autori presenti nella raccolta: Giorgio Ballario, Graziano Cecchini, Daniele Mattia Coresi, Roberta di Casimirro, Augusto Grandi, Gabriele Marconi, Mario Michele Merlino, Miro Renzaglia, Luca Leonello Rimbotti, Davide Sabatini e Susanna Dolci