Come per i racconti di “Natasha” anche il primo romanzo di David Bezmozgis “Il mondo libero” (Guanda, traduzione di Corrado Piazzetta) è dedicato al tema dell’emigrazione. Questa volta l’autore decide di raccontare le vicende della famiglia ebrea lettone dei Krasnanskij che nel 1978 fugge dall’Unione Sovietica e arriva a Roma per ottenere i documentari necessari per espatriare negli Stati Uniti. Un microcosmo composto dall’anziano patriarca Samuil, funzionario del Partito e veterano dell’Armata Rossa, dalla moglie Emma, dai due figli, Karl con la moglie Rosa e i due figli e Alec con la moglie Polina, che permette all’autore di raccontare e intrecciare la Storia con la S maiuscola a storie apparentemente marginali e intime. La bravura dell’autore sta nel costruire personaggi credibili e dalle mille sfaccettature che oltre a conquistare il lettore permettono di fare luce sulle contraddizioni dell’Unione Sovietica, di parlare del dramma dell’Olocausto e della Rivoluzione russa e anche della nascita dello stato d’Israele, di raccontare le difficoltà che vivono gli immigrati, i loro sogni, le loro contraddizioni, l’opportunismo, gli escamotage per ottenere un permesso di espatrio, il rapporto con la città, in questo caso Roma e il litorale, che li ospita. È un romanzo che unisce pagine di umorismo e altre di profondissimo dramma e desolazione. Una famiglia che è un mondo che sta andando alla deriva, spezzato, che si dividerà inevitabilmente. Che porta sulle proprie spalle il peso di orrori indicibili, di viltà, di scelte incomprensibili e di fiducia nel futuro. Samuil credeva nella Rivoluzione, i suoi figli credono, sulla parola, nella possibilità di un Occidente o di un Isreale come terra di libertà e nuove possibilità, saranno forse i nipoti a trovare una nuova strada che unisca passato, presente e futuro. Forse.
Leggendo “L’esercito di cenere” di José Pablo Feinmann (Sur, traduzione di Francesca Lazzarato) è impossibile non riconoscere sin da subito, anche per stessa ammissione dell’autore, delle evidenti somiglianze con due capolavori della letteratura: “Il deserto dei Tartari” e “Moby Dick”: Argentina, primi del Novecento, c’è un colonnello, Andrade, che al comando del Settimo Cavalleria insegue per il deserto un nemico invisibile, forse immaginario ma che lascia dietro di sé massacri indibicili. Un nemico che diventa l’ossessione di Andrade, disposto a sacrificare tutti i suoi uomini pur di raggiungere il nemico. A raccontare questa storia è un giovane tenente, Julian Quesada, che dopo aver ucciso un uomo a duello viene inviato da Andrade per accompagnarlo nella sua missione e che di fronte alla follia del colonnello deciderà di prendere il comando dei soldati. Detto delle somiglianze con i due romanzi, “L’esercito di cenere” nella sua brevità è un romanzo di una potenza incredibile, dotato di una scrittura visionaria che mescola deliri, descrizioni, battaglie, sermoni alla Achab, ferocia inaudita, miraggi. Sono un estimatore assoluto di Moby Dick, un vero fanatico a dire il vero e ho apprezzato questo romanzo proprio per come l’autore ha innestato una dose ancora maggiore di ferocia, per come mi ha fatto sentire il peso di questa ossessione, di questo mostro da uccidere, di questa impurità da cancellare dalla terra, di questo Male che si guarda allo specchio, che ci divora da dentro, inafferrabile, misterioso, invincibile o forse siamo noi la preda, il vero Male, non siamo noi il cacciatore ma la preda e infatti la colonna verrà assaltata, salvandosi per miracolo. Una lotta contro la Morte che è lotta per la vita, che è difesa della vita e la Morte non è morte se la si raggiunge combattendo. Feinmann, come d’altronde Buzzati e Melville, ci fa sentire vicino il colonnello, ce lo fa sentire nostro, siamo noi il colonnello. Il suo crollo psichico, degno di un Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, è da lacrime. Così come la bambina superstite di uno dei massacrici che si prende cura di lui, che lo custodisce. “L’esercito di cenere” è un viaggio che conduce alla follia e all’abbandono dei massacri come accade al tenente, figura tragica ed eroica insieme: inseguito dal Destino non dimentica il gesto d’amore, la riconoscenza nei confronti del colonnello, la giusta sepoltura, il rifiuto dell’anonimato di una fossa comune destinata ai pazzi. E nell’ultimo duello c’è solo il proprio corpo, il proprio volto da mostrare. La Morte è vinta.
José Pablo Feinmann sa come si scrive, i suoi libri peggiori sono molto belli, gli altri sono capolavori :)
RispondiEliminaSì, veramente un grande scrittore.
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