Quest'intervista nasce in realtà tanti anni fa, quando litigai con Federico sulle pagine di
Lankelot. Veniamo da storie diverse e siamo ambedue due persone testarde che amano anche litigare.
Da quel litigio si è costruito nel tempo un sano rapporto d'amicizia. Anche se io e lui non ci siamo mai visti, stretti la mano, abbracciati. Niente di niente.
Federico, classe 1973, è uno dei più scomodi/stronzi/polemici/preparati recensori che io conosca.
Per riassumere ciò che penso di lui mi viene solo da trascrivere alcune frasi di Roger Nimier tratte dal suo "Le spade":
"D'altronde, dico subito che io non voglio essere il più forte di tutti. Chi dice gerarchia, dice anche disciplina, schiavitù. Sono dell'idea che il più forte di tutti non ha mai tempo per battersi, passa troppo tempo ad allenarsi. Invece, io non mi alleno mai e mi batto sempre."
In quest'intervista gli argomenti trattati sono tanti: sport, politica, letteratura, cinema, giornalismo. Si parla di Evola, Degrelle, Steiner, Baggio e molto altro.
Spero che possa interessarvi e che stimoli qualche riflessione e magari anche un sano dibattito.
Partirei col parlare di sport visto che sei un grande amante del calcio e del tennis. Da tifoso romanista secondo te chi scenderà in B quest’anno? E come vivi questa tua fede per la Roma? Per quanto riguarda il tennis: da dove nasce questo amore e come ti spieghi di questa scarsa visibilità di cui gode il tennis in Italia?
Prima di tutto una precisazione: è vero, sono un grande appassionato di calcio e tifoso della Roma, ma la mia squadra del cuore, quella per cui ho iniziato a fare il tifo da bambino, è l’Udinese. Poi, essendo romano, nel tempo, è cresciuta la passione per la Roma e i colori giallorossi. Lo so che non è da vero tifoso d.o.c., ma sostanzialmente sono tifoso di due squadre, che tra l’altro militano anche nella stessa categoria. Vivendo a Roma, da romano e da appassionato di calcio, ti posso dire che è quasi impossibile non amare i colori giallorossi, non farsi coinvolgere da una città e da un tifo tra i più caldi e partecipi d’Italia. E quando si incontrano Roma e Udinese? Mi chiederai. Di solito mi oriento su chi ha più bisogno di punti in classifica, come è accaduto nell’ultimo incontro vinto dai giallorossi ad Udine che non mi ha visto affatto dispiaciuto dell’accaduto, visto che la Roma è in lotta per lo scudetto e l’Udinese naviga tranquillamente a centro classifica. E comunque io sono tifoso, prima di tutto, fazioso e incazzoso come tutti i veri tifosi, tanto da farsi rovinare una giornata da una sconfitta della squadra del cuore contro chiunque. E poi c’è il l’odio sportivo per gli avversari storici, e le conseguenti “gufate” anche se non giocano contro i tuoi colori. E ciò che accade nei confronti di Lazio e Juventus, in particolare. Adoro il calcio e ho apprezzato molti dei suoi protagonisti, ma paradossalmente il calciatore che ho amato di più non ha mai vestito né la maglia dell’Udinese, né quella della Roma, mentre al contrario ha indossato per 5 anni quella della Juventus. Il suo nome è Roberto Baggio, ma l’ho sempre considerato un campione oltre le parti e i colori di bandiera. Un grandissimo uomo, oltre che un fuoriclasse assoluto. Su chi scenderà in B posso dirti che due mi sembrano sicure, e sono Cesena e Parma. Sulla terza dico Cagliari, ora che il grande Zeman è stato esonerato. Per ciò che riguarda il tennis, è un’altra grande passione che, come il calcio, pratico (ormai sempre più sporadicamente) fin da bambino. Negli anni 80/90 ero un grande tifoso di Stefan Edberg e anche di Goran Ivanisevic. Edberg, si può ben affermare, che mi ha fatto amare smisuratamente questo sport, con il suo perfetto gioco di volo. Ora sono un sostenitore di Novak Djokovic, ma mi è molto simpatico anche il giapponese Kei Nishikori. Il tennis non è certo il calcio, per popolarità globale, ma sta acquisendo sempre più visibilità grazie alle tv a pagamento e al fatto che non è più un privilegio di pochi poterlo praticare. Certo, in Italia, non avendo un campione degno di questo nome da decenni, giornali e tv non gli dedicano lo spazio che meriterebbe. C’è comunque il canale tematico in chiaro, Supertennis, ma purtroppo può programmare, soprattutto a livello maschile, solo tornei minori. Per gli slam, l’unica tv possibile è Eurosport.

Sei un uomo poliedrico: critico, polemista, poeta e nella tua formazione spunta il nome di Rudolf Steiner. Mi piacerebbe che tu raccontassi di questo tuo innamoramento, dei tuoi studi a lui dedicati, del suo pensiero e della sua attualità o meno.
Imparai a conoscere Rudolf Steiner nel 1998, grazie all’amore per la mia ragazza di allora, Elena, che aveva due genitori facenti parte di un gruppo steineriano. Entrando in casa sua, vidi per la prima volta i libri di Rudolf Steiner e mi incuriosii subito rispetto a un personaggio così poliedrico e visionario, che dissertò con impressionante competenza su un vasto numero di argomenti, creando poi un modello teorico e una vera e propria dottrina applicabile a tutti questi campi. Steiner è il fondatore dell’Antroposofia, e sulla base degli intendimenti di questa scienza dello spirito, immaginò non solo una filosofia di base, ma un metodo educativo corrispondente, una medicina alternativa, delle teorie economiche, delle basi per l’agricoltura biodinamica e una sorta di visione religiosa che attingeva tanto dal cristianesimo quanto dalle dottrine orientali. Nel suo cristianesimo antroposofico sono fondamentali infatti i concetti di karma e reincarnazione, che com’è noto sono del tutto estranei alla religione cristiana ufficiale. Ma il vero grande lascito di Rudolf Steiner, per ciò che mi riguarda, è il suo metodo educativo. Nel mio scegliere di diventare un educatore professionale, proprio all’inizio degli anni duemila, l’influenza dello Steiner fu fondamentale, tanto che decisi di discutere la mia tesi da educatore proprio su di lui e sul suo metodo educativo. Non ti nascondo che ho avuto molte difficoltà nel fare accettare questo autore alla mia relatrice, e non meno ne ho avute nel momento in cui ho discusso la tesi, essendomi laureato in una università votata al metodo educativo di Don Bosco. I cattolici, come puoi ben immaginare, se conoscono lo Steiner non lo tengono gran ché in considerazione, quando va bene. Quando va male lo considerano o un pazzo pericoloso o un ciarlatano. A livello di testi universitari lo ignorano proprio, invece, tanto che nel mio manuale di storia della pedagogia c’erano pedagogisti di ogni tipo e da ogni latitudine, ma non lui. Il metodo educativo steineriano è forte soprattutto in parte della Mitteleuropa e in Nord Europa, principalmente nei paesi protestanti. Non a caso la prima scuola steineriana fu istituita a inizio Novecento in Germania. Qui a Roma, attualmente, ce ne sono un paio, a quanto so. Ciò su cui si fonda principalmente il suo metodo educativo è lo sviluppo delle peculiarità dell’individuo: nel caso specifico, il bambino. L’educatore non è un mero dispensatore di nozioni, ma è colui che deve far fuoriuscire armoniosamente dall’alunno quelle che sono le sue particolarità, le sue specificità. L’educatore è un mezzo, se così lo si può definire, attraverso il quale il bambino impara a capire ciò che è; ciò che ha dentro in termini di capacità, di fantasia, di creatività. Per far questo i bambini sono accompagnati, sin dalla primissima infanzia, in un percorso in cui le materie artistiche e creative hanno un’importanza capitale. Si cerca di sviluppare il loro sé creativo attraverso il disegno, la manipolazione degli oggetti, le danze e tutte le attività che stimolano la fantasia e arricchiscono l’anima-spirito. L’anima e lo spirito, insieme al corpo, sono gli elementi di base su cui edifica tutto il complesso pensiero teorico steineriano. Ma questa non è sede per spingersi oltre, vi vorrei solo lasciare un passo esemplificativo, tratto dalla sua autobiografia, che tenta chiarire, in maniera che io definirei lirica, questa tripartizione alla base della sua concezione della natura umana: “L’uomo leva lo sguardo al cielo stellato: il rapimento che la sua anima prova gli appartiene; le eterne leggi stellari che afferra nel pensiero, nello spirito, non appartengono a lui, ma alle stelle”.
E quali sono state e come sono andate le tue esperienze come educatore. Della scuola e più in generale dei sistemi educativi contemporanei cosa pensi?
Della scuola attuale, che dirti? Qui in Italia versa in uno stato pietoso, purtroppo, e gli investimenti nel settore, ogni governo che passa, sono sempre più bassi. Per ciò che concerne il sistema educativo, quale che sia, credo che se gli insegnanti non vengono sostenuti, sia nel loro ruolo, che è e resta fondamentale, sia a livello economico. Conseguenza di ciò: la qualità dell’istruzione sarà sempre, progressivamente, più bassa. Col mercato del lavoro attuale, poi, verranno sempre più privilegiati, e da un certo punto di vista non a torto, gli istituti professionali: logico, in un orizzonte in cui le materie umanistiche contano sempre meno se vuoi trovar lavoro. La conseguenza è, però, un impoverimento culturale di base cui inevitabilmente andranno incontro i nostri giovani studenti. E poi la cosa più importante, proprio in ossequio a Rudolf Steiner, il quale affermava: “l’educazione è amore”. Gli studenti non sono numeri, è fondamentale educarli tenendo conto della loro singolarità. L’esatto contrario di ciò che possiamo notare il qualsiasi scuola italiana, che sia pubblica o privata. Ma non è solo colpa degli educatori, come ripeto, è proprio il sistema scuola che sta andando a rotoli, a prescindere dalle metodologie educative.
Passiamo al capitolo critica: come e perché hai cominciato a scrivere recensioni? Quali sono state le tue esperienze migliori e quali le peggiori? E quali sono le caratteristiche, a tuo modo di vedere, che un recensore dovrebbe possedere?
Ho cominciato a scrivere recensioni così per gioco, in un giornalino scolastico negli anni ’90. Erano brevi pezzi sui film usciti in sala, la mia grande passione. Andavo al cinema tantissimo, allora. Quando ho potuto scrivere per la prima volta su un giornale cartaceo a pagamento, ed era il 2003, proposi quindi al direttore se potevo occuparmi, oltre alle cronache di quartiere (era il giornale del XVIII Municipio), anche di una pagina in cui scrivessi recensioni di film. Erano solo due al mese, ma tanto bastava a darmi soddisfazione. Mi è sempre piaciuto scrivere di e sul cinema, recensire pellicole, analizzare filmografie di registi che amo, addentrarmi nei meandri più profondi della settima arte. Certo il cinema era e resta la mia grande passione, ma i miei interessi spaziavano anche al campo letterario e musicale. Così, quando ho conosciuto Gianfranco Franchi, che mi ha proposto di venire a scrivere su Lankelot, non me lo sono fatto dire due volte e ho cominciato a scrivere recensioni di cinema, musica e letteratura, spaziando nei generi e nelle epoche storiche, visto che non eravamo vincolati all’attualità né tanto meno al mainstream. Grazie a Lankelot, e alla sua buona visibilità in rete, e grazie anche al corso di critica cinematografica cui ho partecipato nel 2006, da Sentieri Selvaggi, una delle migliori scuole nell’insegnamento dei vari mestieri del cinema, qualcuno mi ha notato e mi ha chiesto di collaborare a pubblicazioni su registi italiani come Francesco Nuti e Nanni Moretti, e ad altri lavori che riguardassero l’ambito della critica cinematografica. La critica cinematografica divenne da quel momento in poi il mio pane quotidiano, tanto che quando riuscii a entrare come collaboratore al Secolo d’Italia, proposi subito a Luciano Lanna, allora direttore responsabile, se potessi occuparmi delle recensioni cinematografiche e di tutto ciò che riguardasse il cinema in generale. E così fu per i due anni in cui collaborai col Secolo. Una bella esperienza, ma come forse saprai ora il giornale cartaceo non esiste più: resiste, ancora per poco credo, visto il taglio dei finanziamenti, in poche paginette online. Ormai recensisco poco, ahimé, ogni tanto su Lankelot ma con una frequenza molto lontana dall’entusiasmo degli inizi. Per ciò che riguarda il come deve essere un recensore, posso dirti che deve attingere molto dal proprio vissuto, dal proprio background personale. Io, ad esempio, essendo fortemente influenzato dal mio percorso di educatore non disdegno un taglio psicosociale, riflessioni a sfondo filosofico-esistenziali, vaghi accenti lirici, senza esagerare, derivanti dalla mia passione per la poesia. Più in generale, come in ogni narrazione è fondamentale il ritmo. Ricordiamoci che una recensione è un testo su un testo, e ciò vuol dire che ogni opera per cui noi ci spendiamo in esercizio critico non è altro che un quadro da cui noi assorbiamo impressioni che rielaboriamo in una nuova narrazione, che a volte può diventare addirittura altro dal testo che l’ha ispirata. Quello che viene fuori è sempre un riflesso di noi, che il testo preso in esame ha ispirato. Insomma, anche nel misurarsi con la critica ci vuole empatia, unita a un certo rigore narrativo e alla competenza, naturalmente.
Hai scritto su quotidiani, collaborato a siti. Che giudizio ne dai e quali sono i giornali, i siti e i giornalisti che ritieni più interessanti? Io sinceramente non ne posso più, a parte pochissime eccezioni. Internet non corre il rischio di aumentare la superficialità delle opinioni?
Posso dirti che è un mondo che, per quel che ho visto e vissuto, non mi ha mai suscitato sentimenti positivi. Non è un mondo che ho amato e che amo, ma mi è sempre piaciuto scrivere. Nel mio piccolo mi sono sempre o quasi occupato di critica, quindi non ho subito né censure né divieti né avvertimenti particolari, ma ho visto da vicino quale effettiva libertà può esserci in altri settori. Ogni giornalista risponde a una linea editoriale, più o meno ferrea, che deve entro certi limiti rispettare. Ma non è neanche questo che mi dà fastidio, dato che ho sempre dato per scontato questo assunto: è il giornalismo nel suo complesso che non mi piace. Trovo assurdo poi che debba esserci un ordine dei giornalisti, il cui rinnovo del tesserino costa più di 100 euro all’anno, quando la maggior parte di essi non trova lavoro. La carta stampata è in crisi profonda e irreversibile, soppiantata dalla velocità con cui le notizie passano sul web e in tv. Internet, se all’inizio era un’oasi li libertà per chi non aveva voce in capitolo su tante questioni, ora è diventato un vero e proprio calderone in cui si trovano opinioni su tutto e il contrario di tutto. Ciò, come ben immagini, non favorisce la qualità di un’informazione che quanto più è veloce e apparentemente puntuale è più sciatta e superficiale. Per ciò che riguarda riviste e giornali, ormai compro solo la Gazzetta dello sport perché faccio il fantacalcio con un gruppo di amici. Compravo più quotidiani a 20 anni che oggi. Non ho mai avuto un quotidiano di riferimento, e tanto meno lo ho adesso. Ho stima davvero di pochi giornalisti, tra i quali mi piace sempre fare il nome di Massimo Fini, un polemista fuori dagli schemi che ovviamente non ha mai scritto sui quotidiani che vanno per la maggiore e che ci fanno la morale ogni giorno. Come vedi non li nomino nemmeno, tanto è evidente quali siano.

Sei un uomo di destra. Cos’è oggi la Destra in Italia e nel resto del mondo? Del Front National cosa ne pensi?
Per convenzione sì, potrei definirmi di destra, tanto per capirci a grandi linee. Sono di destra, immaginerai, perché sono stato nel Movimento Sociale Italiano, poi in Alleanza Nazionale, e perché i miei riferimenti culturali adolescenziali sono tutti in quell’area lì. Ma non amo, oggi, definirmi entro le categorie destra-sinistra-centro, perché le considero ormai obsolete e prive di significato ideologico in questa fase storica. E poi io vengo dalla destra rautiana, quella che era la destra sociale, o destra di sinistra. Più in generale non centro nulla con quella che storicamente è considerata la destra europea del dopoguerra, quella liberale quando non addirittura liberista, reganiana o tatcheriana che la si definisca per semplificazione. In realtà sono un anarco-individualista dallo spirito libertario fortemente ancorato a una visione politica comunitaria o comunitarista. Non a caso tra i miei riferimenti politici e filosofici ci sono sempre stati Stirner, Sorel, ovviamente Mussolini, Evola, Junger, Heidegger e primo tra tutti Friedrich Nietzsche. Ero, come immaginerai, decisamente più radicale a 20 anni che adesso, come logico che sia, molto più convinto delle mie idee, di quello che ero e del mio ruolo nel mondo. Poi col tempo si relativizza un po’ tutto, e non so ancora se sia un bene o un male. Pertanto dirti cosa è la destra oggi in Italia e nel mondo, non è così semplice, essendo io un destrorso quanto meno atipico rispetto ai canoni attuali, e tanto meno potrei mai definirmi un fascista tout court, visto i miei riferimenti culturali e la mia tendenza anarcoide. Posso dirti che non esiste una destra che oggi mi rappresenta, né in Italia né nel mondo, nonostante abbia stima e umana simpatia per Giorgia Meloni, ma credo che se fossi in Francia lo voterei il Front National, nonostante non condivida alcuni suoi assunti di base, perché è una forza antisistema e contraria all’euro, guidata da una donna intelligente e molto più preparata a combattere le battaglie della contemporaneità di quanto poteva esserlo suo padre.
La tua storia è strettamente legata al fascismo. Cosa ti ha sempre interessato e convinto del Fascismo? Quali sono stati i suoi aspetti positivi e quali le sue criticità? Si può sostenere che il vero fascismo, da un punto di vista teorico/economico fu espresso dalla Repubblica Sociale di Salò?
La mia storia è strettamente legata al fascismo perché mio padre è sempre stato un grande appassionato di storia e di Mussolini in particolare. Sono cresciuto tra i i libri di (perché ne ha anche scritti, per i pochi che non lo sanno) e su Mussolini, sulla storia del Fascismo e di quegli anni. Ho militato fin da ragazzo nel Fronte della Gioventù e poi in Azione Giovani, fino a che ho abbandonato quel mondo, intorno ai 30 anni. Sono sempre stato un neo/post fascista atipico, se così mi si può definire, sia per visione del mondo rispetto a ciò che erano gli intendimenti della destra neo e post fascista, sia a livello antropologico. Ho del Fascismo, oggi, un’opinione sfaccettata che tiene certamente conto del mio voler storicizzare quell’esperienza. Un’esperienza politica che mi sono sempre sforzato di guardare criticamente: non sono mai stato un nostalgico, né un cieco sostenitore di parole d’ordine come onore, fedeltà, dio, patria, famiglia e quant’altro. Sono nato negli anni Settanta, a una discreta distanza da un periodo storico e da un’esperienza politica che come tutte quelle che riguardano grandi movimenti di massa che hanno segnato la storia possiamo necessariamente definire complesse e controverse. Ciò che ritengo fondamentale dell’esperienza fascista, soprattutto per un paese relativamente giovane, quanto a unità politica, come l’Italia, è sicuramente il tentativo di dare un’identità nazionale a un popolo storicamente frammentato. L’idea di costruire una pedagogia di stato interclassista in cui tutti i cittadini e tutte le categorie sociali fossero incluse fu la grande intuizione politica di Mussolini. Il Fascismo aveva una alta idea di nazione, basata su una forte solidarietà sociale che immaginò eguale dignità per tutti pur nella valorizzazione delle differenze. In questo senso, soprattutto a livello economico, il tentativo di fare incontrare armonicamente capitale e lavoro, in un mondo in cui c’era già una forte sperequazione, evidenziata peraltro bene dall’analisi marxista, tra queste due categorie, fu il fiore all’occhiello di una politica sociale che fu alla base del grande consenso che ebbe sia in patria che all’estero il Fascismo, quanto meno fino a che Mussolini non entrò in guerra. Il Fascismo, ed oggi l’analisi di storici più liberi e meno ideologici di quelli che argomentarono nell’immediato dopoguerra, ebbe un grandissimo consenso, che tenne sostanzialmente finché le cose non incominciarono a precipitare a seguito della dichiarazione di guerra. Ricordiamoci che quando Roosevelt dovette risollevare gli Stati Uniti per la crisi della borsa di Wall Street, è al modello italico e fascista che guardò. Certo il Fascismo fu una dittatura, scelse un’alleanza che fu sconfitta, e questo nessuno può negarlo, per quanto io non sia un paladino della democrazia così come oggi è praticata e conosciuta. Mussolini ebbe anche il torto di contornarsi di parecchia gente opportunista, che poi lo tradì, e le federazioni locali erano controllate da capetti locali che facevano il bello e il cattivo tempo, sostanzialmente incontrastati. Il Fascismo mise in atto anche le leggi razziali, ancorché questo sia un discorso complesso che non si può liquidare in poche battute, ma che qui non è il caso di affrontare. Fu forse il sistema più all’avanguardia del tempo, dal punto di vista sociale, e dunque più giusto, per il paese meno adatto, quanto a fierezza delle idee e capacità di non salire sul carro del vincitore una volta capito dove tira il vento: gli italiani sono noti per essere voltagabbana (Bruno Vespa ha scritto da poco un libro sull’argomento che rende chiaramente questa peculiarità negativa del Bel Paese), tanto che quando le cose precipitarono, dopo l’8 settembre 1943, furono in tanti a cambiare casacca e bandiera. Dopo l’aprile 1945 fiorirono partigiani ovunque, e se si pensa che nell’immediato dopoguerra i quadri del Partito Comunista Italiano erano per più dell’ottanta per cento ex fascisti, il discorso è completo. Senza contare che tra i più ferventi antifascisti del dopoguerra, nel mondo del giornalismo e della cultura, c’erano ex fascisti e addirittura ex repubblicani di Salò, gente che addirittura aveva inneggiato all’odio razziale o aveva tessuto lodi sperticate al Duce. È il caso di Giorgio Bocca, di Eugenio Scalfari, ma anche di Dario Fò, e potrei fare tantissimi altri nomi noti della così detta intellighenzia italica del dopoguerra. Oggi non ha senso parlare di vero Fascismo. Il Fascismo è un’esperienza che si è conclusa, nel sangue tragico e terribile di Piazzale Loreto, nel 1945. Il Fascismo va consegnato alla storia e valutato senza alcun pregiudizio ideologico e senza nessuna nostalgia. Ed è così che io lo guardo adesso, e che forse l’ho sempre guardato.
Di un movimento come CasaPound cosa ne pensi?
Ho incontrato per la prima volta i ragazzi di CasaPound qualche anno fa, in seguito al fatto che tre di loro hanno voluto conoscermi perché avevano letto e pubblicato sul blog di cui erano responsabili alcuni miei pezzi scritti su Lankelot, in particolare ne ricordo uno su Militia di Léon Degrelle e un altro su Sudditi, di Massimo Fini. Tre ragazzi simpatici e molto preparati, attraverso i quali ho conosciuto sia i responsabili della struttura che gli eventi organizzati dal movimento. Ne posso parlare solo bene di CasaPound, per quel che ho visto e conosciuto, sia per ciò che riguarda i tanti ragazzi militanti che per il taglio culturale e politico dato ai loro incontri. Nel caso specifico per me non si tratta di condividere o meno un’ideologia, quella fascista, alla quale loro si richiamano riaggiornandola comunque alle problematiche del terzo millennio, ma di sostenere il loro entusiasmo e il loro tentativo di fare politica all’interno di un tessuto sociale difficile e complesso. Il loro ispirarsi ai principi di quello che ritengo un grande letterato e pensatore del Novecento, Ezra Pound, è stata per me una motivazione in più nel provare simpatia umana e politica nei loro confronti. E poi ribadisco, per quello che ho visto sono dei bravissimi ragazzi, tanto che ho accettato sempre volentieri i loro inviti a dibattiti o incontri culturali. Ancorché adesso sia un po’ che non li vado a trovare.
E della svolta leghista che abbandona la secessione?
Be’, penso che la Lega ha fatto bene e che gli è anche convenuto, visti i risultati attuali. Era una battaglia identitaria che poteva avere un senso negli anni del consolidamento politico e che adesso è assolutamente datata, visti gli scenari politico-economico-sociali del Bel Paese attuale: ormai credo faccia poca presa anche nelle più remote valli padane. Più in generale penso che Salvini sia un politico scaltro e intelligente, le cui battaglie non mi sono così estranee come potevano esserlo quelle della Lega di Bossi. Trovo sia vincente, a livello strategico, anche l’alleanza europea col Front National. Pur restando lontano dal retroterra culturale di un leghista, non posso non dirmi anch’io contro l’euro e contro l’Europa germanocentrica asservita alle grandi banche, alla grande finanza e al grande capitale, tanto per semplificare concetti che, mi rendo conto, in altro contesto andrebbero sviluppati meglio. Ma è per capirci, insomma. In sintesi, c’è di ben peggio nel triste panorama politico italiota, a mio avviso.

Il tuo nome è un omaggio a Léon Degrelle. Ti va dispiegare chi era e le ragioni del tuo legame con lui. Su Lankelot tempo fa, vado a memoria, si diceva che il suo “Militia” se uscisse, oggi, con un nome di fantasia potrebbe conquistare più di un lettore.
Il nome con il quale firmo i miei pezzi su internet, come ben dici è un omaggio a Léon Degrelle, ma la scelta di questo pseudonimo ha origini ben precedenti, nella mia vita. Quando entrai nel Fronte della Gioventù, mi venne presto detto di scegliermi un nome di battaglia ed io scelsi Léon, in omaggio a colui le cui pagine m’avevano rapito ancora adolescente. Mi riferisco, naturalmente, alle pagine di Militia. Ma prima di parlare di Militia, spieghiamo a sommi capi chi era Léon Degrelle. Per noi giovani militanti del Fronte Léon era un mito, prima di tutto. Anche chi non aveva letto Militia, entrando in una nostra sezione sarebbe venuto naturalmente in contatto con l’epica narrazione delle sue gesta. Per quanto epicizzato con tutta l’enfasi possibile, per i diciottenni che eravamo allora (parlo dei primi anni Novanta), da un ambiente che al tempo era ben ancorato ai suoi miti politici e d’azione, Léon è forse uno dei pochi personaggi per il quale quel tipo di narrazione leggendaria era realmente ben motivata. E lo capii quando andai oltre Militia, e lessi i suoi scritti politici e di guerra. Léon fu fin da giovanissimo tante cose: curioso viaggiatore, uomo di lettere e cultura, uomo politico e uomo d’azione. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu soprattutto un impavido condottiere pronto al sacrificio più estremo per un suo fratello in battaglia. Giovanissimo, durante un viaggio negli Starti Uniti, Lèon toccò con mano le grandi sperequazioni sociali e il volto estremo del capitalismo. Tornato in patria, in Belgio, fece sue le grandi battaglie contro il capitalismo e la corruzione, contro le iniquità sociali, contro tutti i privilegi avallati da una classe politica immobilista e corrotta. Fondò un periodico, Rex, attorno al quale in pochi anni si costruì un movimento d’opinione che divenne anche movimento politico. Fino a che Rex, composto in prevalenza da giovani leve e guidato da Degrelle, entrò in parlamento con una trentina tra deputati e senatori. Fu osteggiato successivamente tanto dai partiti liberali che cattolici che di sinistra. Vistosi oscurato in patria dalle grandi lobbies affaristiche e dai partiti di potere, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale Léon decise di combattere al fianco della Germania nazionalsocialista, ritenuta da lui la forza avversaria sia del capitalismo che del comunismo. Fu un grande soldato e condottiere, e ricevette per le sue gesta, direttamente da Adolf Hitler, la più alta onorificenza al valor militare, unico non tedesco peraltro insignito di tale riconoscimento. A guerra persa, Léon fu ritenuto dal Belgio un traditore, fu condannato a morte e in conseguenza di ciò costretto a vivere in esilio, in Spagna, fino alla sua morte, che sopraggiunse peraltro in tarda età. Questo in estrema sintesi il suo percorso, perché ci sarebbe da argomentare molto su tutti gli eventi che hanno caratterizzato la vita straordinaria di Léon Degrelle. La mia fascinazione nei suoi confronti è per molti versi a prescindere dalle scelte politiche da lui fatte. Ho un’opinione molto articolata rispetto agli eventi della Seconda guerra mondiale, e rifiuto a priori i concetti di giusto e sbagliato in senso assoluto, se riferiti a un conflitto di tale portata e alla complessità delle motivazioni dello schierarsi delle nazioni da una parte o dall’altra. Léon era e resta, nel suo lascito alle nostre e alle future generazioni, un uomo di alto valore morale e intellettuale, di grande spirito e grande coraggio. Un uomo immutevole, che non ha mai fatto una scelta che sia una per convenienza o tornaconto, come dimostra tutta la sua biografia. Basterebbe questo, allontanando qualsiasi pregiudizio, per apprezzarlo quanto meno sul piano umano e della coerenza personale. Per penetrare l’anima di un tale personaggio, basta immergersi in quello che può essere per certi versi definito il suo testamento spirituale: Militia. Militia non è un semplice breviario politico ma è un insieme di pensieri alti sulla vita e sugli uomini, sul coraggio e sulla debolezza, sulla ragione e sulla fede, sulla fratellanza e sui grandi ideali che non muoiono. Per un ragazzo desideroso di aprirsi alla vita, di combattere le piccole grandi battaglie, non solo politiche, ma anche e soprattutto esistenziali che gli si pongono di fronte, è quanto di più coinvolgente si possa incontrare. Letto a 18-20 anni, con la purezza e il radicalismo propri dell’adolescenza, Militia è un testo davvero rivoluzionario, che non può avere lo stesso effetto, anche apprezzandone le pagine e riscontrandone l’indubbia liricità, se lo si legge con occhi troppo adulti edulcorati dalla razionalità e dalla vita che fugge inesorabilmente più veloce. Con queste ultime parole credo in qualche modo di averti risposto, sul fatto che se non fosse firmato da Léon Degrelle, ritenuto ancora oggi, dalla storia riscritta dai vincitori “democratici”, un criminale di guerra, Militia avrebbe il posto che merita nella storia della letteratura a tema del Novecento. E per rendere tutto più chiaro, rispetto a ciò che mi sono sforzato di significarti rispondendo a questa domanda, ti lascio uno dei passi di Militia che mi hanno letteralmente folgorato la prima volta che mi è capitato tra le mani e che continuano a vibrare nell’anima ogni volta che lo rileggo: ”Possano queste pagine, ultimo fuoco di quel che io fui, ardere ancora un momento, riscaldare ancora un istante le anime possedute dalla passione di donarsi e di credere: di credere malgrado tutto, malgrado la disinvoltura dei corrotti e dei cinici, malgrado il triste gusto amaro che ci lasciano nell’anima il ricordo delle nostre colpe, la coscienza della nostra miseria e l’immenso campo di rovine morali di un mondo che, sicuro di non avere più bisogno di salvezza, da questo trae motivi di gloria, ma deve lo stesso essere salvato. Deve più che mai essere salvato”
Arriviamo al capitolo cinema. Che tipo di spettatore sei? Come scegli i film? E quali sono i tuoi film, registi preferiti e quelli che invece detesti?
Sono prima di tutto uno spettatore curioso, attento a nuovi registi e nuovi modi di far cinema, ancorché le novità oramai siano sempre più tecnologiche che artistiche. Solitamente non scelgo i film in base al genere, preferendo guardare a chi dirige e alle tematiche di ogni pellicola. Ho un debole per i film di formazione, al di là del genere che li contraddistingue, e quando trovo la felice coincidenza tra regista, attori e tematica vado a vedere un film al cinema anche se si trova nella sala più sperduta e scomoda della città. Ma oramai in sala vado sempre meno, privilegiando la visione domestica. Film e registi preferiti? La lista sarebbe lunga, ma cercherò di limitarmi all’essenziale. Per quanto riguarda i film, se ti li devo buttar giù così, senza troppe motivazioni ti dico Fanny & Alexander e Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, Mulholland Drive ed Elephant man di David Lynch, Edward mani di forbice e Big Fish di Tim Burton, Mystic River e Million dollar baby di Clint Eastwood, I quattrocento colpi di François Truffaut, Lasciami entrare di Tomas Alfredson, e poi due anime, lo struggente Una Tomba per le lucciole di Isao Takahata e la pellicola animista per eccellenza: Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Per citarne anche di italiani mi piace ricordare Profondo Rosso di Dario Argento, che è il mio film dell’infanzia (l’ho visto a 9 anni, la prima volta, e credo di averlo rivisto più di ogni altro film), ancorché sia un thriller-horror, 8 e mezzo di Federico Fellini, splendida riflessione sull’artista e sull’arte, e Giù la testa di Sergio Leone, un western atipico che mescola i temi dell’amicizia e del sogno-illusione rivoluzionario in un’opera grandiosa e commovente. Un cenno doveroso anche a qualche titolo di fantascienza, come Star Wars di George Lucas, Blade Runner e Alien di Ridley Scott e Terminator 2 di James Cameron. Come avrai inteso, tra i film citati ci sono nomi di registi e alcune tematiche (il tema della diversità, da me molto sentito, nel parallelo tra due opere di struggente intensità e bellezza: Edward mani di forbice e Elephant man) ricorrenti. I miei registi preferiti, si sarà capito, sono: su tutti Ingmar Bergman, che ho scoperto ed immediatamente amato intorno ai 20 anni, poi certamente, senza voler trovare per forza un ordine di grandezza ci sono David Lynch, Tim Burton, Clint Eastwood, François Truffaut e ad oggi anche Hayao Miyazaki. Per quello che riguarda ciò che detesto, al momento mi viene facile risponderti parecchio cinema italiano. Non solo la commedia così come oggi è concepita nel Bel Paese, ma disprezzo anche e soprattutto la pretenziosità di certo nostro cinema ritenuto d’impegno, al contrario fin troppo provinciale e ancorato a schemi ideologici che oramai non hanno più senso. Salvo davvero poco del cinema nostrano, il cui ultimo grande film che io ricordi è addirittura datato 1990: Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Se vuoi che ti faccia qualche nome che detesto, su tutti credo che ci sia il sopravvalutatissimo Ferzan Ozpeteck, il cui cinema è di una pretenziosità e di un’inconcludenza narrativa da far rabbrividire: davvero un cimitero di titoli inguardabili, tra i quali ricordo con orrore Saturno Contro, Magnifica presenza, Cuore Sacro, Allacciate le cinture. Un altro nome che non digerisco, anche se la critica nostrana l’ha spesso immotivatamente incensato, è quello di Paolo Virzì, di cui non avevo disprezzato Ferie d’agosto e Ovosodo, in principio di carriera, ma che successivamente ha messo insieme una boiata dopo l’altra, tra le quali spicca per bruttezza assoluta N io e Napoleone. Poi naturalmente c’è Gabriele Muccino, il quale sembra aver successo negli States, che si iscrive a pieno diritto nella categoria degli inguardabili e detestabili. Anche qui la scelta è ampia: si va dagli orrori americani come l’insulso Sette anime per finire con l’inutile e fastidioso Baciami ancora. E potrei continuare a farti nomi di registi italiani disprezzabili, anche se di minore notorietà rispetto ai tre che ti ho citato, ma non è il caso di approfondire un discorso così triste e mortificante per il nostro cinema. Per capirci, io non sono un estimatore nemmeno di Paolo Sorrentino - pur non paragonandolo certo all’assenza di talento dei sopra citati -, né del suo ultimo, premiatissimo film, La grande bellezza, nonostante che apra con una bellissima citazione tratta da un libro che adoro: Viaggio al termine della notte di Céline.
Leggendo le tue recensioni emerge un grande amore per il Giappone. Mishima, gli anime, Murakami. Ti va di raccontarci le ragioni di questo amore?
Sai, io ho un debole per i vinti della storia. E in una prima istanza il paese del Sol Levante ha catturato la mia simpatia per ciò che è avvenuto durante e soprattutto a seguito della seconda guerra mondiale. Il bellissimo film di Clint Eastwood, Letters from Iwo Jima, testimonia ad esempio le gesta dei giapponesi in guerra, ed è un buon modo per capire lo spirito di questo popolo ed anche le sue umanissime contraddizioni. Per ciò che è avvenuto post conflitto, basti solo rilevare che il Giappone è la nazione che ha subito le sanzioni più forti e la dominazione più consistente, sia a livello politico che culturale, tra tutti paesi dell’alleanza sconfitta. Nemmeno la Germania ha subito tanto. Fino alla metà degli anni Cinquanta il dominio e il controllo degli Stati Uniti su questa terra è stato pressoché totale e incondizionato. Tutto era sotto il controllo degli americani, dalla politica all’economia e perfino la cultura: per capirci, musica, cinema, letteratura, tutto passava al vaglio e all’accettazione del controllo degli americani impiantatosi sul suolo giapponese. Tutto ciò ha prodotto, nel tempo, quando man mano la morsa degli States si è allentata fino a che, negli anni Ottanta, il Giappone è diventato addirittura la seconda potenza economica del mondo - con il reddito pro capite e gli stipendi più alti che altrove -, una cultura spuria che mescolava in modo straordinario la cultura occidentale con la tradizione secolare del Sol Levante. Ciò ha generato scrittori come Haruki Murakami, perfetto esempio di questa sintesi riuscita, e altri interessantissimi letterati influenzati profondamente dalla cultura occidentale. Ha contribuito a creare l’animazione così come adesso la conosciamo, di cui Hayao Miyazaki è il perfetto portabandiera. E anche Yukio Mishima, custode della tradizione e del culto dell’imperatore, non fu estraneo alla fascinazione occidentale, pur criticando aspramente la trasformazione progressiva del Giappone, esempio ne furono non soltanto alcuni memorabili romanzi, ma anche il modo in cui scelse di darsi la morte: attraverso un rito tradizionale come il seppuku, ma in diretta televisiva. Certo il Giappone dall’occidente prese anche tutti i difetti, diventando una potenza devota all’economia di mercato e al credo capitalista, contraendo tutti i mali delle democrazie occidentali come la corruzione politica e degli alti funzionari di stato, più un sistema di lavoro spersonalizzante e fortemente competitivo che l’ha portato ad essere, sulla linea dei paesi protestanti del nord Europa, una delle nazioni col più alto tasso di suicidi. La cultura, le tradizioni e la filosofia di vita del Sol Levante hanno poi trovato perfetta corrispondenza col mio modo di essere e di guardare alle grandi questioni filosofiche, esistenziali e spirituali. Trovo affascinante e vicino ai miei intendimenti spirituali lo shintoismo, che è la loro religione autoctona, caratterizzata da una visione animistica della natura. Lo shin-to è la via degli dèi, la condotta che si armonizza con gli spiriti della natura e degli antenati, i kami, di norma benevoli, cui si sovrappongono gli oni, demoni malvagi e violenti. Più in generale, a differenza delle religioni abramitiche e antropocentriche - cristianesimo, islam ed ebraismo -, lo shintoismo, come del resto anche il buddismo, l’altra religione praticata in Giappone, è molto più attento a ciò che è celato, nascosto, invisibile agli occhi e avvolto dal mistero, piuttosto che a ciò che svelato, incarnato, visibile. Anche per questo amo le opere di Miyazaki, film come Principessa Mononoke e La città incantata, intrisi fortemente di dottrina shintoista. Il mio sentirmi più vicino, intellettualmente e spiritualmente, a tutte le grandi dottrine orientali, non solo allo shintoismo, ma anche alla grande tradizione induista e alle diverse declinazioni del buddismo, rispetto a quelle di derivazione abramitica, è dato anche e soprattutto dal loro essere non dogmatiche, al loro essere cosmocentriche e al loro rapporto armonioso con la natura in tutti i suoi elementi. Sì, hai proprio ragione, è davvero un grande amore quello che provo per il paese del Sol Levante, e spero un giorno di poterlo visitare, perché ancora non ho avuto occasione di farlo.
Da un punto di vista letterario quali sono in generale i tuoi scrittori preferiti? Mentre scrivevo questa recensione pensavo che Bastian mi colpisce quasi più ora che la prima volta che ne lessi.
Quando parli di scrittori preferiti immagino tu ti riferisca alla narrativa. Distinguo il mio percorso d’amore per la narrativa in tre età, rappresentate da libri e autori ben definiti, Nella tua domanda citi Bastian, non a caso, uno dei due ragazzini protagonisti - l’altro è Atreyu - de La storia infinita. Il libro di Michael Ende è stato il romanzo della mia infanzia, ma ha esteso il suo potere di fascinazione e il suo messaggio profondo anche all’adolescenza e all’età adulta. Dici bene, La storia infinita si apprezza maggiormente se riletta con occhi cresciuti, perché contiene potenti messaggi esistenziali e valoriali che un bambino non può comprendere del tutto. Bastian colpisce più ora che allora perché oggi noi distinguiamo chiaramente che è l’alter ego di Atreyu, che Atreyu è lo specchio in cui egli stesso si guarda e che gli permette di interiorizzare un monito fondamentale: “è più facile sconfiggere chi non crede in niente”. È un grande invito a credere, a combattere e a sconfiggere il vuoto che ci circonda attraverso il potere dell’immaginazione. Immaginare nuovi mondi, nuove cosmogonie: a guardar bene La storia infinita è un libro magico, che regala diversa emozione e consapevolezza a seconda dell’età in cui lo leggiamo. Altro libro importante per la mia fanciullezza fu Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, opera che non ha bisogno di presentazioni tanto è nota e celebrata, che non mi stanco mai di riprendere in mano ancora oggi, quando ne sento il bisogno. Ultimo libro dell’infanzia, ma assolutamente più adatto agli adolescenti è IT, di Stephen King, che non a caso ho riletto con eguale interesse a 18 anni. È un horror atipico, che contiene una grande storia di formazione. I libri significativi dell’adolescenza sono ancora una volta tre, per tre autori che non ho mai smesso di amare: I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, Demian di Herman Hesse e Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij. Protagonisti sono tre adolescenti tormentati, per tre storie molto diverse tra loro unite dal potere di una narrazione ipnotica. Sono i tre grandi libri dell’immedesimazione: Werther, Emil Sinclair e Raskolnikov sono senza alcun dubbio stati i personaggi in cui più mi sono immedesimato. E poi c’è l’età adulta e l’incontro con Yukio Mishima e Louis Ferdinand Céline. Credo che Viaggio al termine della notte di Céline sia il libro che mi ha sconvolto l’esistenza, un’opera dal potere straordinario che come nessun altro libro di narrativa è utile a capire il Novecento a cavallo tra le due guerre nella sua essenza più cruda e dolorosa. Di Mishima adoro tutta la narrativa, ma voglio citare, in particolare, due grandi titoli come Il padiglione d’oro e Neve di primavera. Altro autore scoperto e amato in età adulta è Dino Buzzati, che a mio parere ha scritto la più affascinante opera narrativa italiana del Novecento: Il deserto dei tartari. Oggi come oggi leggo con passione Haruki Murakami, grande costruttore di universi, del quale ho quasi finito di consumare l’intera opera, e apprezzo un autore americano molto poco prolifico ma capace di trattare temi terribili con invidiabile capacità narrativa e senza un grammo di retorica come Scott Heim.
Evola. Non se ne riesce mai a parlare veramente. Di sicuro non è un autore semplice. Ti va di raccontarcelo in poche righe?
È vero, di Evola non se ne riesce mai a parlare veramente, salvo che in ambiti ristretti che un tempo erano legati solo all’appartenenza politica. Ma prima di parlarne, di un autore complesso e controverso come Julius Evola, bisogna almeno conoscerlo un pochino. Purtroppo è un personaggio estraneo alla cultura dominante, e quando anche vagamente conosciuto totalmente ostracizzato. Anche nell’ambito a lui più consono del dopoguerra, quello della destra missina, Evola è stato sì molto citato, ma poco e mal conosciuto, quando non pericolosamente frainteso. E questa è una grossa colpa che imputo a un ambiente, quello della destra post e neo fascista, dove i riferimenti culturali erano spesso visibili e riconoscibili, ma poco e mal studiati. Io mi appassionai ad Evola per pura curiosità, proprio perché il suo nome era spesso ricorrente nell’ala rautiana del nostro mondo missino. Ti dico subito che non era la prima lettura che faceva un ragazzo in quell’ambiente, e spesso nemmeno l’ultima. Evola era molto noto, ma sostanzialmente ignorato. Questo perché di prassi politica si è occupato quasi per nulla, se non nel volume che circola più spesso nelle sezioni: Gli uomini e le rovine. Ma chi era e di cosa si occupava veramente Julius Evola in quei suoi testi così complessi e articolati? Se vogliamo definirlo in qualche modo era un filosofo della tradizione. In ciò si rifaceva alle teorie dello storico delle religioni, anch’egli fervente difensore dei valori della tradizione, René Guénon. Credeva cioè alla suddivisione che Guénon riprendeva dalla dottrina induista nel suo volume fondamentale Crisi del mondo moderno: la dottrina indù insegna che la durata del ciclo dell’umanità terrestre, al quale dà il nome di manvantara, si divide in quattro età che segnano il progressivo oscuramento della spiritualità primordiale. L’età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Noi adesso ci troveremmo nell’ultima età, il Kali-yuga, detta anche età oscura, e vi saremmo da circa seimila anni. Risulterà chiaro da ciò come si vada ad argomentare su età decisamente anteriori a quelle raccontate dalla storia classica. Di qui la netta opposizione del pensiero moderno e illuminista a tali teorie. Evola nel tempo, pur restando fedele all’impianto filosofico tradizionale, costruirà un impianto teorico proprio differenziandosi da Guénon, soprattutto nel rapporto con la spiritualità e con la religione in genere. Emblematico, a questo proposito, il volume Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo in cui Evola demolisce gli impianti strutturali di religioni e spiritualismi che hanno attraversato l’occidente, compresa l’Antroposofia di Rudolf Steiner di cui parlavamo in precedenza. Per non entrare troppo in discorsi che ci porterebbero lontano da una breve presentazione, ti dico che le tematiche da lui trattate che hanno interessato un tipo come me non sono state quelle politiche, anche perché pure da questo punto di vista è un personaggio poco connotabile, nonostante le sue opere abbiano circolato in ambienti di destra. Evola è stato, a mio avviso, un grande diffusore di culture e dottrine estremo orientali in Italia e in Europa, al pari se non in maniera più rilevante dello stesso Guénon. Fondamentali sono stati e restano, ancora oggi, libri come La dottrina del risveglio, opera unica nel suo genere sull’ascesi buddista, e lo Yoga della potenza, testo altrettanto unico sul tantrismo. Più in generale Evola aveva una capacità di scrittura, una chiarezza espositiva, un’erudizione tale che poteva dissertare con estrema padronanza su innumerevoli tematiche filosofico-metafisiche e dello spirito, ma anche su politica e attualità. È certo un autore complesso, di non facile decodificazione, che abbisogna di tante letture, di una naturale predisposizione a tali materie e di una minima preparazione di base per poterlo apprezzare ed efficacemente penetrare. Io l’ho studiato per anni, proprio perché i temi da lui trattati e il modo in cui li trattava mi era congeniale. Posso dire, per quel che ho letto, di averlo capito? Non oso arrivare a tanto, perché il suo unico vero esegeta è stato e resta un uomo di grande cultura prematuramente scomparso come Adriano Romualdi, dico solo che è stato un grande impulso alla ricerca e alla conoscenza, alla scoperta di nuovi mondi e di altri autori che venivano citati nei suoi testi. Insomma, fu per me davvero una fonte inesauribile di conoscenza, soprattutto riguardo alle metafisiche orientali che tanto mi interessavano e che come avrai capito continuano ad interessarmi.
Chiudo questa intervista con domande di stretta attualità: come sta la tua città dopo tutti questi scandali? Giorgia Meloni, vicina al tuo mondo, potrebbe essere un buon sindaco? E di tutta questa vicenda di Charlie Hebdo, scontro con l’islam, eccetera cosa ti senti di dire? E di Matteo Renzi cosa mi dici?
E come vuoi che stia, Roma. Decisamente male, e negli anni sempre peggio. Da quando ho iniziato a far politica, nei primi anni Novanta, non ricordo una che sia una amministrazione decente: Rutelli, Veltroni, Alemanno. Sono cambiati i colori politici ma l’inadeguatezza dei sindaci è rimasta la medesima. E adesso abbiamo addirittura un primo cittadino come Marino, che dire incapace è dire anche poco. È un sindaco assolutamente ridicolo, che non conosceva la città e che non è riuscito a farsene un’idea pur vaga in questi anni in cui l’ha guidata, mettendo in atto scelte assurde e cervellotiche come la pedonalizzazione dei Fori Imperiali e della quasi totalità del centro storico. Sono cambiati i sindaci, in questi oltre vent’anni, ma i rapporti di potere con le lobbies affaristiche della città e con i palazzinari sono rimasti sempre gli stessi, come dimostrano anche i recenti scandali. Quello che è venuto fuori dall’inchiesta “mafia capitale”, forse può aver sorpreso chi a Roma non ci vive ma non certo i cittadini romani. Che poi Roma sia una città difficile da governare questo è vero, ma ciò non giustifica l’immobilismo e gli scempi di cui Roma è vittima dal lontano dopoguerra. Una città come Roma, nell’era repubblicana ha subito un declino, non solo morale, che oramai è sotto gli occhi di tutti. Io mi auguro che Giorgia Meloni, qualora fosse candidata, sia eletta. E spero naturalmente possa essere un buon sindaco, migliore quanto meno di quelli recenti. Ho conosciuto Giorgia Meloni, che è di pochi anni più giovane di me, al tempo della militanza nel Fronte della Gioventù/Azione Giovani, e già allora, non ancora ventenne, era una dirigente giovanile della sezione di Colle Oppio. Al tempo, noi di Roma Nord eravamo alternativi, all’interno del mondo giovanile della destra romana, al loro gruppo. Avevamo referenti politici e strategie diverse, per capirci. Con gli anni ho imparato ad apprezzarla, ed oggi posso dirti che mi suscita anche simpatia e che è uno dei pochi personaggi politici che parla in modo chiaro e comprensibile a tutti. Su Charlie Hebdo e lo scontro con l’islam avrei diverse considerazioni da fare, ma cercherò di restare su un piano di sintesi e di estrema chiarezza. Prima di tutto vorrei dirti che la strage parigina non credo che sia un semplice atto di terrorismo, ma un vero e proprio salto di qualità del fondamentalismo islamico nel suo voler colpire l’occidente e i suoi simboli. È stato il primo tentativo di applicare la shari’a in uno stato non islamico, e non dubito che ce ne saranno altri, nel prossimo futuro. È stata una risposta inequivocabile al contenuto di vignette ritenute ingiuriose nei confronti del Profeta. Non dobbiamo stupirci più di tanto, perché una cosa del genere prima o poi era logico sarebbe avvenuta. Ora, io non entro nel merito di cosa sia giusto o meno pubblicare, di cosa possa essere offensivo per la sensibilità di un popolo, di una religione o meno, dico solo che non può sorprenderci una reazione del genere. E non può sorprenderci, a maggior ragione, la reazione del fondamentalismo islamico nei confronti dell’occidente. Siamo in guerra, e su questo non ho dubbi, ed è una guerra che abbiamo scatenato noi potenze occidentali, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia su tutte, a partire dall’Iraq e l’Afghanistan, per proseguire nella pessima strategia d’intervento nelle rivoluzioni arabe. Non era pensabile che l’intervenire in paesi che avevano una loro sovranità e un loro modo di vita, giusto o sbagliato che risultasse ai nostri occhi, non comportasse conseguenze. Ci è sempre stato detto, dai governi delle potenze occidentali, che si andava a esportare democrazia. Più che democrazia, si andava a esportare modelli di sviluppo e di consumo, ma se uno Stato sovrano nel suo territorio ha altri modelli di sviluppo e modi di vita, è più che logico che lotti per la sua identità e la sua cultura. E qui non do giudizi di merito, perché uno stato confessionale in cui le libertà sono ridotte ai minimi termini a me fa orrore, mi limito soltanto a registrare gli eventi di questi anni in un rapporto di causa ed effetto. Dunque siamo in guerra, come ripeto, ed essendo questo l’orizzonte più immediato nel quale dobbiamo orientarci le decisioni che dobbiamo prendere mi sembrano conseguenti e inevitabili: bisogna rafforzare la sicurezza interna e sospendere gli accordi di Schengen, non vedo altra soluzione possibile. Un’ultima considerazione su Charlie Hebdo: è un periodico settimanale che, prima della tragedia, era sostanzialmente mal digerito se non disprezzato da tutti o quasi in Patria e anche fuori dai confini francesi. Di conseguenza ho trovato insulsa e disturbante questa campagna “Je suis Charlie” fatta dall’Europa, perché figlia di un’ipocrisia dilagante che per quel che mi riguarda è davvero insopportabile. In ultimo ti rispondo su Matteo Renzi. Devo ammettere che oramai lo confondo con Crozza, e viceversa, ma al di là di ciò posso dirti che è l’inevitabile prodotto della stagione politica che stiamo vivendo. Umanamente non mi è nemmeno antipatico, ma è il perfetto figlio di questo tempo deideologgizato e alquanto incolore. Più in generale, al di là delle umane simpatie che posso provare, come quella per Giorgia Meloni, questo è un tempo che non favorisce pathos e immedesimazione nei confronti di qualsivoglia personaggio politico. Non vorrei risultare banale ma così è. Rimpiango, per certi versi, il tempo in cui tutto era più chiaro e distinguibile, chi stava a destra chi a sinistra, pur nell’ingenuo massimalismo che si poteva avere. Come si può oggi a 20 anni riconoscersi in Renzi, in Grillo, o in qualunque altro personaggio politico sull’italica ribalta. Per certi versi non è neanche colpa loro, è proprio questo tempo che viviamo che è ingrato, da questo punto di vista e non solo.
Ultima, ultimissima domanda: chi lo vince lo scudetto?
Posso dirti solo questo. Ricordo il 1983 e il 2001, Roma in festa vestita di giallorosso. Non credo sia questo l’anno buono, ma spero di rivivere presto quelle emozioni. Portare il mio cane Bastian, che adoro, a spasso per la capitale, ambedue con la sciarpa giallorossa al collo, per una lunga, felice e spensierata passeggiata per le piazze e i vicoli della mia amata città. Sarebbe come tornare ad essere un po’ bambino, a ben guardare.
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