Ho un’amica francese che da sempre vota Front National e anche quando non votava è sempre stata di destra. Cosí come il resto della sua famiglia. Anche se onestamente lei aveva previsto una vittoria su scala molto più ampia in tutta la Francia, ieri era al settimo cielo. Felicissima. Tipo fiammella che corre nell’arco celeste. E io ero molto contento per lei.
Da molti questa mia amicizia è e sarà sempre considerata qualcosa di esecrabile ma m’importa poco.
Aggiungo: Marionne è molto bella e affascinante e onestamente mi piacerebbe intervistarla.
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Immagino l’umore di redattori e lettori de Il Manifesto ( e di molti altri) di fronte alla sconfitta elettorale della rivoluzione chavista. Io ci provo ma non ci riesco con questi zucconi. Mi scappa solo un sorriso. Non crediate però che io stia con questi fantomatici democratici dell’opposizione venezuelana.
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Trascrivo le chiusure di quattro ritratti che mi sono particolarmente piaciuti:
“Hideki Tojo, primo ministro e capo di stato maggiore durante le innumerevoli battaglie del Pacifico, onorevolmente reclamò a sé l’intera responsabilità della guerra. Con lui il reverendo Hanayama parlò della colossale statua del Buddha di Nara, alta quindici metri e fusa milleduecento anni fa in lega di bronzo e ora, pesante cinquecento tonnellate. Gli spiegò che quella statua non è chiamata grande per la sua mole. Ma perché quando il Buddha apparve in questo mondo ne apparve un altro nel mondo della luna, e in ognuno die mondi che sono tra le stelle. Lo commosse dicendogli che la loro somma è il grande Buddha, e che quella statua fu fatta perché tutti se ne ricordassero. Poco prima che Hideki Tojo venisse impiccato, dissertarono con calma assieme sulle credenze degli indigeni della Siberia, i quali giudicano che tutte le cose vivano e che pure gli alberi piangano, respirino, tossiscano.” (Shinsho Hanayama, Buddhista, pp. 40-41)
“Dal 1933 al 1935 patí il delirium tremens. Ritornò senza soldi all’infanzia, e recitò parti infime, impassibile. Anche in quella primavere del 1940, quando girava per strada con le mani in tasca, e s’accorse che una ballerina ventunenne sorrideva a qualcuno. Abbisognò di qualche minuto per capire che sorrideva proprio a lui. Abbassò le sopracciglia e si risposò. Recitò anche per la televisione e in una sceneggiature di Beckett senza sapere, come si richiedeva, quanto faceva. Quindi recitò nel circo Medrano a Parigi, applaudito, come nel 1963 a Venezia. Neppure lí sorrise. Da subito, bambino in volo piroettato per aria, ben intese che non vi sarebbe stato molto di cui ridere.” (Buster Keaton, Imperturbabile, pag. 148)
“Fino all’umanissimo ristorante dove l’androginia, quel che d’adolescente estranea al sesso, che era nella Garbo, diede forma perfetta alla ipocrisia di Ninotchka. La quale addirittura a tavola nega d’avere un sesso; una negazione che ancor più eccita Léon d’Algout che la bacia. Ma ancora Ninotcka non cede: resiste anzi a tutte le formidabili battute che Billy Wilder aveva scritto, da nordica ostinata nella noia melanconia che resterebbe tale, finché goffo Léon cade dalla sedia… E la Garbo rise. E risero i clienti finti di quel ristorante, e rise Lubitsch in esilio, e rise l’universo intero. E però senza i Buljanov, i Kopalskij veri, sterminati da Stalini come tutta la prima leva di bolscevichi, fatta di falliti ma uomini di mondo. Seguirono poi Chruscev e Breznev, le anime ottuse di un pigro contadino pervertimento. Ma intanto il marxismo riviveva negli anni ’60 in europa; e ne plasmava le attuali élite, di reduci stanchi. Difficile perdonarli d’essere cosÌ noiosi. Ninotchka apparve nel ’39, dunque nel ’68 il tutto era già imperdonabile. Gli imbrogli del terzo libro del Capitale avevano reso risibile il marxismo teoretico; quello pratico, il moralismo che n’è residuo, sarebbe dovuto finire con la Garbo che ride. L’infossarsi delle sue guance non più inflessibili, nell’abbandono della sua risata, per sempre confermava: “Niente è politica”. (Greta Garbo, Ninotchka, pp. 167-168)
“Calcolò di rifugiarsi dal Dalai Lama in Tibet; attraverso il deserto dei Gobi. Invece una congiura dei suoi ufficiali il 21 agosto 1921 lo consegnò a Scetinkin, capo dei partigiani dello Jenissei. Quando costui gli chiese cosa pensasse dell’Internazionale, replicò: “Per me l’Internazionale è nata tremila anni fa a Babilonia”. Aggiunse di aver trascorso la sua vita a fare la guerra e studiare il buddhismo. “Mio nonno portò il buddhismo dall’India in casa nostra, mio padre e io l’accettammo e lo professammo in Transbajkalia”. Volentieri rammentò d’aver creato un Ordine militare buddhista “per combattere la depravazione rivoluzionaria. Esso prevedeva uso illimitato di oppio, e la rinuncia al superfluo, secondo le regole del buddhismo della fede gialla”. Fece aggiungere agli atti del processo “Nei testi buddhisti e negli antichi libri cristiani si leggono gravi profezie per il tempo in cui dovrà cominciare la lotta tra spiriti del bene e spiriti del male. Quando la depravazione invaderà il mondo per cancellare la civiltà e negare le diversità dei popoli”. Venne fucilato a trentacinque anni. I mongoli videro in lui la reincarnazione di Gengis Khan. Un libro americano sui vampiri lo nomina, impropriamente, tra i bevitori di sangue.” (Barone Von Ungern, Generale dei Cosacchi, pp. 95-96)