
Il primo o magari il secondo pensiero che prenderà forma nella vostra mente leggendo “Un gioco da grandi”, romanzo di Benjamin Markovits (pubblicato da 66thand2nd nella collana Attese con la traduzione di Michele Martino) tutto giocato fra invenzione e autobiografia come per altro suggerito dall’epigrafe di Byron: “E poi detesto le sole opere di fantasia […] Persino nella costruzione più eterea dovrebbe esserci qualche fondamento di realtà, e la pura invenzione non è che il talento di un bugiardo”, sarà probabilmente una domanda del genere: che ci fa un mediocre cestista statunitense, studente e aspirante scrittore a Landhust, cittadina a poca distanza da Monaco di Baviera? Possibile che esista veramente un personaggio del genere? La risposta è sì, basta che sfogliate qualche giornale sportivo per accorgervene. Confesso che appena mi sono posto questa domanda il mio cervello si è messo ulteriormente a scavare nelle fosse della mia memoria per poi formulare un’ulteriore domanda, questa volta del tutto personale: ma che diavolo ci facevano una cestista croata (Vedrana Grgin) e una statunitense (ahimè, il nome mi è del tutto oscuro) nel mio paese di provincia a metà degli anni ’90 per giocare nella locale squadra di basket femminile che militò solo per quell’anno in A1? Che tipo di vita era la loro? Cosa significava vivere in Brianza? Perché erano finite da noi? Denaro, possibilità, apprendistato, fine carriera? Qualche risposta me la sono data anche perché non era poi difficile incontrarle nella piazzetta del paese o a passeggiare nei dintorni del palazzetto sportivo. Erano davvero in pochi quelli che non si fermavano a guardarle, qualcuno di noi tifosi ci aveva pure stretto una lontanissima amicizia, si era fatto autografare sciarpe e scattare foto ricordo ed ecco che mentre leggevo “Un gioco da grandi” riflettevo sull’abilità di Benjamin Markovits di raccontare una storia del genere trovandogli una forma pressochè perfetta. Una volta ascoltai quella ragazza croata dire “Per fare qualcosa devo andare altrove” e alla fine se ne andò in giro per il mondo, giocando anche in Brasile e negli Stati Uniti.
Il protagonista di questo romanzo è Benjamin un ragazzo con padre ebreo e madre tedesca che all’ultimo anno di college decide di tentare la fortuna giocando a basket in Germania e facendosi qualche soldo. Lo favorisce la lingua, che conosce perfettamente, la sua voglia di andarsene ma non certo un talento cristalliano perché Ben in fin dei conti ha passato una vita in panchina ma si sa se un giocatore che arriva dagli Stati Uniti ha un certo fascino, anche se non ha mai visto l’NBA ve la fa comunque sognare. Ben però non è solo un cestista, è più un ragazzo che vorrebbe diventare uno scrittore e emigra in Germania perché non sa che fare della propria vita, non sa se proseguire negli studi ma soprattutto non sa se esista davvero un senso nel diventare uno scrittore e soprattutto, dentro di sé, teme di rimanere uno scrittore mediocre esattamente ome è un mediocre cestista. Pur trovando grazie a un’alchimia di video e marketing la possibilità di giocare in una squadra che si chiama Yoghurt, in find dei conti Ben è un emigrante, uno che scappa in cerca di un lavoro saltuario, un giocatore di basket interinale, uno in cerca di un’occasione per svoltare nella vita, certo un lavoro ben pagato, con un sacco di comfort, un appartamento a dispozione ma alla fine Ben altro non è che un ragazzo modesto e timido emigrato in una cittadina di provincia a svolgere un lavoro che non gli darà mai soddisfazione.
Markovits è magistrale nel trasmettere le contorsioni dell’ambiente cestistico ma più in generale di quello sportivo, l’architettetura fisica e mentale degli allenamenti e delle partite, la vita degli spogliatoi che rimbombano di chiacchiere, sfottò e pulsioni sessuali latenti o evidenti (un qualsiasi ragazzo o ragazza che conosca gli spogliatoi si ritroverà magicamente in ciò che viene descritto a pagina 9 e 10), il confronto/scontro /unione con con l’allenatore, la dirigenza e gli altri giocatori che della squadra, come la futura promessa autoctona che arriverà nell’NBA, il ruolo dei talent scout/agenti alla ricerca di talenti e denaro, il cestista nero adottato, gli altri giocatori statunitensi come l’anziano, si fa per dire, talento sulla via del tramonto al quale soffierà per qualche mese l’ex moglie vogliosa di cambiare vita. Markovits soffia sulla pagina ritmo di gioco, tensioni, dolori alle ginocchia e lo fa con una malinconia rappresa che ha il sapore di una certa provincia soporifera, quasi gentile nei modi ma che sa portare a galla tutte le delusioni, incapacità, timidezze, sconfitte che covano nell’animo.
Markovits è un giocatore di panchina, uno di quelli che rimane in panchina non solo nel basket ma anche nella vita e non sa come sfruttare questa situazione perché è una situazione, pensate a quanti giocatori mediocri sono diventati degli ottimi allenatori per esempio. Ciò che gli viene offerto durante questo anno è tempo libero in grandi quantità quando non si allena e gioca, tempo da trascorrere nella propria stanza in solitudine oppure bighellonando con la bicletta nella campagna tedesca alla ricerca delle proprie origini, perché nelle giornate tutte uguali Ben rientra in sinagoga, lì, in quella Germania che ha spazzato via parti della sua famiglia, una sinagoga protetta da un uomo armato, un luogo dove Ben sembra trovare un conforto o comunque la via d’accesso a una dimensione più profonda dell’esistenza. Anche se questa parte dedicata alle proprie origini ebraiche non è a mio avviso la parte migliore del romanzo (insieme alla relazione che Ben intreccia con Anke, interessante nella fase iniziale e poi snervante) perché quasi sulfurea e a tratti insipida, c’è da chiedersi se alla fine non sia un bene che l’autore non abbia calcato la mano sulla tematica ebraica perché avrebbe caricato eccessivamente la narrazione di elementi troppo ingombranti che avrebbero guastato l’atmosfera generale del romanzo seppure non manchino delle interessanti riflessioni sul razzismo strisciante e sull’ambiguità del politically correct ma sono sempre fatte con garbo, inserite sotto forma di discussioni, di incontri, senza mai che scivolino in tirate ideologiche o moraliste.
In questo modo l’autore immerge il lettore in questa atmosfera distesa che fa sfondo ideale allo scorrere di questo anno di formazione giocato fra ripensamenti, slanci emotivi e rimessa in discussione dei rapporti familiari. Un anno apparentemente di svago ma molto pericoloso perché Ben è circondato da uomini che si sono fatti trascinare nel fallimento, che vivono ai margini, uomini con le ginocchia rotte, sfiduciati, intristiti dalla vita e per una volta è commovente leggere di giovani statunitensi senza più radici, sdradicati, esiliati dalla propria stessa patria e in questa condizione di solitudine narcolettica Ben finisce quasi anche per perdere la passione del gioco in sè, del gustarsi una partita per divertimento, dell’abitudine di snocciolare statistiche che è una sorta di elemento ricorrente in molte narrazioni statunitensi perché se si pensa allo sport americano è impossibile slegarlo dalle statistiche che diventano essenziali anche nella costruzione di una narrazione (e bisogna dirlo, per motivi culturali, sociali, di sistema scolastico gli scrittori/artisti statunitensi sono dei maghi nel raccontare di sport). Markovits ritroverà solo alla fine di questo anno sabbatico il piacere del gioco e proprio da questa esperienza saprà trarre la forza e il coraggio per affrontar eil futuro. Leggetelo “Un gioco da grandi” perché può rivelarsi il romanzo ideale per chi ha vissuto lo sport da comprimario, da giocatore assolutamente normale che non può vantare grandi successi nella propria carriera (anche se Ben vivrà un anno sportivamente trionfale) o magari sì ma mai come protagonista assoluto. Questo è un romanzo per tutti coloro che hanno visto le partite dalla panchina ma che poi sono riusciti ad alzarsi in in qualche modo e magari hanno fatto altro nella vita, senza però mai vergognarsi di sedersi in uno stadio o davanti alla tv per godersi con gioia e trepidazione un qualsiasi evento sportivo.
Edizione esaminata e brevi note:
Benjamin Markovits (1973), è cresciuto tra il Texas, Berlino e Londra, dove vive attualmente. Appassionato di pallacanestro e Romanticismo, autore di sei romanzi e di un’acclamata trilogia ispirata alla vita di Lord Byron, Markovits è stato inserito dal «Daily Telegraph» nella lista dei venti migliori romanzieri Under 40 attivi in Gran Bretagna.
Benjamin Markovits, "Un gioco da grandi", 66thand2nd, Roma, 2012. Titolo originale "Playing Days", 2010. Traduzione di Michele Martino.
Andrea Consonni, ottobre 2012
(Questa recensione è anche su Lankelot al momento purtroppo fuori uso)